giovedì 15 marzo 2012

Down in Mexico

"Siamo tutti esuli dal nostro passato" 
Fëdor Dostoevskij

"Ricordare il passato serve per il futuro, così non ripeterai gli stessi errori: 
ne inventerai di nuovi"
Groucho Marx


1.


Con la fronte attaccata alle mattonelle del cesso, mentre il fumo della sigaretta mi acceca, piscio barcollando in un locale notturno mexicano. Significa che sono ubriaco. Il senso di colpa mi ha seguito come un killer a pagamento e ora mi picchia forte ai fianchi.


Playa Del Carmen, Messico, luglio 2007. 


E' il mio secondo giorno di vacanza al di sotto del Tropico del Cancro. Esco dal bagno e cerco Mino che sembra essere scomparso assieme a una ragazza bruna con la faccia da furba. Roteo lo sguardo offuscato tra la folla, di lui nessuna traccia. Ma mi ritrovo davanti un paio di occhioni scuri, una testa di ricci neri e labbra carnose che mi parlano. Nel locale, il "Santanera", la musica è alta. Non capisco cosa stia dicendo la ragazza messicana che adesso mi sorride, muove i fianchi, provo a baciarla. Lei schiva, mi stringe una mano e mi fa capire che là dentro no, non si può. Fuori, dobbiamo andare fuori. Ma io non voglio uscire. Adesso sono ubriaco al punto giusto. Non voglio seguirla, né parlare, né conoscerla. Voglio solo un contatto carnale, in fretta, prima che i pensieri killer tornino a torturarmi. 


Mentre tento un altro stupido approccio, vedo arrivare Mino. Mi sorride. Al suo fianco c'è la tipa con lo sguardo da furba. Scopro che è italiana, d'origine sicula. 'Sti cazzo di italiani sono sempre dappertutto. 


Il fatto di aver ritrovato Mino mi rassicura. Occhioni belli intanto mi prende per mano e mi porta fuori. È magra, ha poco seno ma un bel sedere tondo. Deve essere un misto messicano e africano. Sorride ancora: occhi grandi, capelli ricci. L’effetto dell’alcol si mescola alla mia ansia sociale. Anche se le immagini sono più ferme ora, nei suoi tratti vedo lei, quella da cui sono fuggito due giorni fa. Facce e corpi si sovrappongono. Interferenze elettriche. Prima vedo l’una, poi l’altra.

Una è scura di pelle, sudamericana. L’altra – distante migliaia di km – è caucasica, emiliana, rossa. Eppure nell’una rivedo l’altra. In quegli occhi grandi e scuri che mi sorridono rivedo lei, come l’ultima volta, prima di dirle mentendo "Ci vediamo lunedì."

Avevo ventisette anni. Mentire mi aveva procurato dolore e disgusto. Ma anche l’entusiasmo sadico di chi può finalmente giocare sporco. Tradire le aspettative altrui ha un fascino profondo quando vivi una vita infame. E io la vivevo.


Così, invece di mantenere la promessa e tornare da lei, un lunedì di luglio ho preso un aereo per Cancun, Mexico. Questo è l’inizio di tutto quello che è venuto dopo. Un evento cardine della mia esistenza, perché ha definito chi fossi e chi sarei diventato. Ma la memoria è un puzzle. I pezzi si mescolano. Bisogna rimetterli al loro posto, altrimenti l’immagine resta incompleta.

Serve un altro passo indietro.

Durante il viaggio in aereo, Mino sembrava l’immagine della felicità. Occhi chiari, muscoli allenati, colorito sano. Un ragazzo bello e sportivo, che conoscevo fin dalle elementari. Poi era diventato pallavolista di serie A. Attraente, simpatico e ricco. Uno stereotipo, ma era mio amico. E in quel periodo ci legava qualcosa di più, stavamo affrontando entrambi un passaggio sentimentale importante.

Una mattina Mino mi chiama con tono serio e fuori luogo. Aveva un modo troppo drammatico di esprimere i suoi problemi, che in realtà erano solo fastidi nella mia opinione. Non gli ho mai concesso il lusso del dolore. Per me era fortunato. Quello a cui non andava mai dritto niente ero io.

"Sono nella merda."
"Che è successo?"
"Quella stronza di G. vuole che le paghi gli alimenti"
"Ma non siete sposati"
"Le ho dato un po’ di soldi dopo che ci siamo lasciati, per aiutarla. Ma ora lei ha chiamato un avvocato"
"Fammi capire. Vi siete lasciati un mese fa e tu le hai dato dei soldi?"
"Sì, lei non lavorava. È stata con me tanto tempo…"

La storia la conoscevo. Mino era stato trasferito in Sicilia con un bel contratto per tre stagioni nel campionato. Lei lo aveva seguito, mollando una carriera da studentessa fuori corso e impiegata part-time. Un gesto romantico o forse un investimento. Dopo tre anni, G. veniva mollata e adesso cercava di fare cassa.

"Quanto le hai dato?"
Silenzio. Una cifra.
"E chi è l’avvocato?"
"Una donna. Ti passo nome e cognome"
"Parlo con la mia Boss"
"Grazie. Ti rendi conto? Le ho dato dei soldi e me ne ha chiesti ancora!”.

Mi rendevo conto. E mi metteva in allarme. Perché anch’io stavo per lasciare F. 

Racconto tutto alla mia Capa, avvocato, occhi azzurri e cattivi.

"Non le deve dare un cazzo" sibila dietro una montagna di faldoni "Che tipo è la ex?"
"Stile velina, succhiasoldi"
"Se l’è scelta bene, lo sportivo."

Un altro clichè.

La Boss aveva decretato. A me toccava inviare un fax alla controparte per far capire che non c'era margine di accordo. 


Quella sera racconto a F. La faccenda. Lei dà della troia alla ex del mio amico, ma sottolinea che se le avessi fatto qualcosa del genere me l’avrebbe fatta pagare. 


Quella minaccia era il riassunto della nostra relazione. Un alternarsi di passioni, gelosie, parentesi romantiche, risate, fumetti scritti a penna lasciati sul tavolo della cucina. E coltellate. Il tutto condito da carnalità viscerale. Lei era stata la prima a occupare uno spazio nel mio armadio, la prima a lasciare lo spazzolino da denti nel mio bagno, la prima in reggicalze che abbia mai consumato. Con lei ho fatto viaggi, ho pianto quando a entrambi è morto il cane. Io e F. ci siamo abbracciati nei giorni di pioggia, sotto lo stesso ombrello rotto. Andavamo in bagno insieme, uno seduto sul cesso, l'altra a cavalcioni del bidet. Croce e delizia. Occhi grandi, una testa di capelli mossi e rossi, tette succose, culetto scattante, ironia sul filo di lama.


Ma tutte le cose belle che vivevo con lei non erano sufficienti a preservarmi dalla crisi esistenziale che ciclicamente mi gettava in ore piene di dubbi. Indossavo la cravatta e mi chiedevo:


"Che cazzo sto facendo?"
"Devo mollare tutto? Amo F.?”

“Faccio finta di niente?” 

“Voglio restare solo?"
"Non lo so. A volte sì, a volte no."


Non sapevo rispondere al perché stessi interpretando un personaggio tanto diverso dal me stesso che avrei voluto essere. Non trovavo felicità nelle cose. L'estate si avvicinava in fretta e quando lei mi domandava "Che facciamo per le vacanze?" avevo voglia di piangere.


Poi una mattina, sceso dal treno, mi viene incontro un cactus gigante con un sombrero. Ride. "Che cazzo ridi, cactus?”.

Mi porge un volantino: VIAGGI IN MEXICO!


"Pronto"
"Sì"
"Ho parlato con l’avvocata. Pare voglia collaborare"
"Meno male"
"Dice che dietro G. c’è la madre"
"Lo sapevo! Troia peggio della figlia! Vorrei ammazzarla"
"Meglio di no. Senti, ho visto un cactus gigante stamattina…”
"Cazzo dici?"
"Se non hai allenamenti…"
"Sono libero fino a fine luglio."
"Allora partiamo."
"Dove?"
"Mexico"
"Domani abbiamo i biglietti"

Il viaggio è lungo. Notte artificiale in aereo. Allo sbarco, taxi fino a Playa del Carmen. Fuori dai finestrini: Messico. Strade asfaltate, distributori Texaco, operai col caschetto. Il cielo grigio. Nuvole messicane sulle nostre teste piene di pensieri. Stavamo zitti io e Mino, ognuno amaro per i fatti propri. All'arrivo ci aspettavamo di trovare il sole. Lo pensavamo senza dirlo, invece nuvole, nuvole, nuvole.

Il nostro hotel sta ai confini esterni del lungo corridoio di case e negozietti che poi è Playa del Carmen. Ad aspettarci un paio di italiani che si occupano della gestione dell'hotel e conoscono Mino di fama.


Oltre alle nuvole grigie, ai pensieri malsani e ai sensi di colpa, mi seguiva anche uno status sociale che credevo d'avere lasciato a casa. Mino godeva di una serie di privilegi che gli arrivavano dalla notorietà sportiva, dalla bellezza e dalla ricchezza. Soprattutto dalla ricchezza che attirava il servilismo di amici e conoscenti che lo idolatravano. Era attorniato da gente che pareva sfiorarlo per prendere un po' della sua luce. 


Mino era un mio amico, fin dalle elementari, e in quanto tale per me restava quel ragazzetto con cui andavo in bicicletta nei pomeriggi di primavera. Eppure la nostra amicizia, dopo quel viaggio in Messico, è diventata sempre più fragile, lontana, estranea. Posso dire di aver creduto ci fosse una fratellanza tra me e Mino, ma è stata solo una mia idea. Invece era una proiezione, forse un sentimento di rivalsa. 


Appena siamo scesi dal taxi, un tamarro con lo sguardo da cagnaccio e il suo socio ci sono venuti incontro. Salutando Mino e quasi ignorando me. Pareva fosse arrivato Magic Jonson nel loro cazzo di albergo a tre stelle. 


La nostra stanza era pulita, col balconcino, l'aria condizionata, due letti da una piazza e mezzo, e lenzuola bianche. Avevamo avuto il tempo di sistemare i bagagli, farci una doccia e stramazzare. Ma prima lo Smilzo mi aveva portato un fazzoletto di carta accartocciato con dentro della marijuana.


"E' roba messicana!" aveva detto lui.

"Grazie" avevo risposto io.


L'umore non era alle stelle. Avevo fumato giusto per gradire, poi il sonno aveva vinto.


-


Il giorno dopo, sole pallido oltre le finestre, il Cagnaccio ci presenta un’italiana che gestisce l’hotel con lui, e in parte muove il culo come insegnante di danza a Playa. La Ballerina squadra il mio amico da femmina in calore, poi mi sorride con un minimo di curiosità. Prima stava col Cagnaccio ma la storia era finita.

Mino e io, costume da bagno e telo da mare, siamo pronti per la spiaggia. Prima facciamo colazione sotto un portico stracolmo di sedie spaiate e tavolini di legno. Due messicani cicciotti ci portano pane tostato, succo d’arancia e marmellata: colazione continentale, la chiamano.

Con quello stato d’animo simile alla malinconia, mescolato al jet lag che non molla, arriviamo in spiaggia. Davanti a noi il mare dei Caraibi. Immersi tra le onde, guardiamo la riva allontanarsi. Senza dirlo, ognuno pensa alla propria "sposa" abbandonata.

Sul litorale, palme alte. Il volo dei pellicani, a squadre di cinque o sei, sembra quello di aerei scuri e stilizzati. Ancora nuvole. 

Messico e nuvole. 

"Mexico e nuvole
la faccia triste dell’America..."

In Italia la passavano in radio e la gente la cantava. A noi, adesso che eravamo in Mexico, faceva un po’ ridere e un po’ piangere. Intanto il sole stava ancora dietro quelle cazzo di nuvole tristi.

Ogni tanto tiravo fuori il cellulare, che restava muto. Neanche un vaffanculo da F. che aveva ricevuto la mia mail in cui le confessavo d’essere partito e di non amarla più. Le avevo scritto perché non sarei mai riuscito a farlo guardandola negli occhi. F., dopo aver letto, aveva pianto. Poi urlato. Ma ora il suo silenzio mi devastava.

Il cellulare di Mino, invece, squillava di continuo. 

"Hey campione, quante te ne sei fatte?"
"Grande, hai scopato?"
"Non scopare troppo che poi ti devi allenare!"

E lui sempre a rispondere. Quella era la sua famiglia: amici cresciuti nella stessa strada, stessa parrocchia, stessa razza. Io ero arrivato dopo e non ero mai entrato nella sua compagnia. E questo mi faceva sentire ancora più estraneo. Pensavo che col tempo si sarebbe risolto. Invece no.

La compagnia è un clan con regole non scritte e gerarchie interne, dove la personalità del singolo si sacrifica all’armonia del gruppo. Mino era il principe. I suoi amici più stretti, i ministri. Poi i sudditi adoranti. E poi c’ero io. L’esterno. Mi sentivo migliore degli altri. Perciò non mi accorgevo che invece di stargli accanto alla pari, ero anch’io uno di quelli che gli succhiavano la luce in qualche modo.

Lo Smilzo e il Cagnaccio decidono che quei dieci giorni in Messico li passeremo con loro. Attività e programmi per turisti. Dopo il primo giorno di relativa libertà, ci trascinano nella zona del divertimento serale di Playa: incrocio di viette che diventa una piazza piena di locali, bar, ristoranti e pisciatoi all’aperto. 

Tra questi c’è il Santanera. Locale buio, si fuma dentro, musica minimal-house. Studenti americani, surfisti, gay colorati, chicas. Io sto là, pigiato sotto la consolle, coi lampi stroboscopici negli occhi. E sto bene. 

Mino, lo Smilzo e il Cagnaccio sono nell’area VIP, quella più commerciale: tavolo riservato, bottiglia di vodka, frutta mista, ragazze coi tacchi e cocainomani sparsi attorno. Non è il Mexico che pensavo. Però mi getto anch'io nella mischia debosciata e provo a non rompere troppo i coglioni. Ecco perché mi attacco alla bottiglia: per farmi piacere questo carnevale. 

E tra un sorso e l’altro mi trovo di fronte la mexicana con gli occhioni scuri che adesso mi porta fuori dal locale tenendomi per mano. Intorno si balla, si ride. Fa caldo. La abbranco. Si lascia baciare, lingua e tutto. È andata, F. Sto baciando un’altra. Fino a oggi ti sono stato fedele. Adesso, no. Ma quanto ti assomiglia. Jesus Maria santissimi. Sto assaggiando la tua versione tropicale.

Mino mi passa accanto con la ragazza siciliana che barcolla sui tacchi.


"Io accompagno lei al suo appartamento" mi dice.
"Ok"
Mi rivolgo alla mexicana. "Y nosotros que vamos a hacer ahora?"
"No sé" fa lei maliziosa. "Si tú lo quieres, está una amiga cerca. Vámonos tú y yo”

Hay carramba!
Mi porta a casa dell’amica.

"E vámonos" dico.
A Mino “Ci vediamo all’albergo."

Così, ognuno con la sua femmina, ci allontaniamo dal Santanera dove il carnevale sudamericano consuma la notte tropicale. Che poeta.

Lei mi dice di chiamare un taxi.
Come, un taxi? Non era vicina, ‘sta amica?
"Sì, ma ho i tacchi."
Già, i tacchi.
"Ma non sarebbe meglio scopare in spiaggia?"
"No, è pericoloso. Aquí te matan!"
Già, meglio di no.

Nel taxi, sul sedile dietro, la palpeggio per tenere vivo l’erotismo. Ma i pensieri killer mi inseguono. Il viaggio dura poco. Pago io ovviamente. Scendiamo in una stradina buia, casette basse. La chica mi bacia, gentile, ma l’amica non è in casa. Quindi?

"Guarda caso qui c’è la mia macchina" dice lei "Io vado a mi casa ahora. Ci vediamo domani”.

Tutto ‘sto bordello per un arrivederci a domani?

Ora me ne devo tornare a piedi? E magari trovo Mino con la sua femmina già in camera? Giudaporco.

Mentre la messicana riccioluta fa manovra per scomparire nella notte, io cammino verso l'albergo. Non ricordo che ore fossero, era tardi, quasi giorno. Come un randagio cerco la strada del ritorno, lungo il corso desolato di Playa del Carmen. All'improvviso tutte le luci si spengono. 


Ho ancora il suo rossetto sulle labbra. Ma è come una botta di coca che scende all’improvviso. Mi accendo una sigaretta.

"Chissà se la messicana aveva previsto tutto" .

"Mi ha solo usato per tornare alla sua macchina?"
"Oppure voleva scopare e ho sbagliato qualcosa?"
"Era un’amica del Cagnaccio?"
"Chi ha pagato la bottiglia di vodka?"
"Perché non ho scopato?".

Una voce familiare.

"Dove cazzo vai, stonato?"

È Mino, seduto sotto il portico di un residence moderno, con la ragazza siciliana.


"Credo in albergo”
"Hola" fa lei.
"Tutto a posto?"
"Sì, stavamo parlando un po’ di Playa"

E mentre Mino parla, lei gli strofina una mano accanto alla patta dei pantaloni, non curante di me. Che carina. Osservo la scena e penso che questo sia un modo per dire "Hey, sono una ragazza meridionale ma qui in Mexico mi sono emancipata, vedi? Tocco un ragazzo davanti a te, sono una femmina senza paura di essere considerata". Una troia, penso io. 


Sto rosicando. Mino si sceglie le ragazze fissandole da lontano e quelle gli fanno un sorriso malizioso. Poi lui se le va a prendere. Per me è sempre stato il contrario. 


"Vai in albergo, quindi?" chiede Mino.

"Sì, ci vediamo là".


Raggiungo l'hotel ma la porta principale è serrata. Un cartello invita i clienti a suonare il campanello per chiamare il custode. Suono una volta, niente. Suono ancora, un cazzo di niente.


Mi sposto sotto il portico pieno di sedie spaiate dove abbiamo fatto colazione. L'alcool ormai è svanito. La stanchezza invece sale e un'idea stupida affiora. Decido di farmi un caffè. Vado dietro il grosso bancone di legno. La macchina è accesa. Apro un paio di cassetti, trovo le cialde, sgancio la pipetta di ferro, prendo una tazzina. Frrrrrrr, esce il caffè. 


Intanto, come l'ombra del diavolo, Mino compare sotto il portico.


"Che cazzo stai facendo?" dice.

"Faccio il caffè, ne vuoi?".

"Perché non sei in camera?".

"Perché non m'hanno aperto".

"Come cazzo facciamo?".

"Boh".

"Fammi un caffè".


Ancora una cialda, altra tazzina.


"Com'è?" chiedo io.

"Fa schifo" dice Mino.

"Bene".


Un tizio con una torcia elettrica ci illumina. Per un attimo credo ci spari addosso invece è il custode dell'hotel. Ci fa entrare, piuttosto incazzato, chiedendoci perché non abbiamo suonato il campanello. Noi gli rispondiamo di averlo suonato il campanello. Ma forse lui non ci ha sentiti. Forse si stava facendo una sega nel retro, eh? Siamo stanchi, facci entrare. Vado a dormire adesso. 


Ho baciato una messicana ma non ho fatto sesso. Prima mi ha detto che mi portava da un'amica e poi niente. E tu Mino? La Porca? Vi vedete domani? Bravo, buonanotte Mino. 

Sono stanco, sono.

Non lo so cosa sono. 

Chissà se adesso F. piange per me. 

Non so se la amo. O forse la amo ancora di più. Ma ormai gliel'ho scritto, capisci? Ho scritto delle cose brutte, delle cose da cui non puoi tornare indietro. 

Sto male, sto male, come fosse l'eroina. 

L’eroina.

fine prima parte