giovedì 15 marzo 2012

Down in Mexico

"Siamo tutti esuli dal nostro passato" 
Fëdor Dostoevskij

"Ricordare il passato serve per il futuro, così non ripeterai gli stessi errori: 
ne inventerai di nuovi"
Groucho Marx


Con la fronte attaccata alle mattonelle del cesso, mentre il fumo della sigaretta mi acceca, piscio barcollando in un locale notturno mexicano. Significa che sono ubriaco. Il senso di colpa mi ha seguito come un killer a pagamento e ora mi picchia forte ai fianchi.

Playa Del Carmen, Messico, luglio 2007. 

E' il mio secondo giorno di vacanza al di sotto del Tropico del Cancro. Esco dal bagno e cerco il mio amico, Mino, che sembra essere scomparso assieme a una ragazza bruna con la faccia da furba. Roteo lo sguardo offuscato tra la folla, di lui nessuna traccia. Ma mi ritrovo davanti un paio di occhioni scuri, una testa di ricci neri e labbra carnose che mi parlano. Nel locale, il "Santanera", la musica è alta. Non capisco cosa stia dicendo la ragazza messicana che adesso mi sorride, muove i fianchi - cazzo ne so - provo a baciarla. Lei schiva, mi stringe una mano e mi fa capire che là dentro no, non si può. Fuori, dobbiamo andare fuori. Ma io non voglio uscire perché adesso sono ubriaco al punto giusto. Non voglio seguirla, non voglio parlare, non voglio conoscerla. Voglio solo un contatto carnale, in fretta, prima che i pensieri killer tornino a torturarmi. 
Mentre tento un altro stupido approccio vedo arrivare Mino. Mi sorride, al suo fianco c'è la tipa con lo sguardo da furba. Scopro che è nostra connazionale d'origine sicula. 'Sti cazzo di italiani sono sempre dappertutto. 
Il fatto di aver ritrovato Mino mi rassicura. Occhioni belli intanto mi porta per mano fuori dal locale. E' magra, ha poco seno ma un bel sedere tondo. Deve essere un misto di sangue messicano e qualcos'altro che viene dall'Africa. Sorride ancora, occhi grandi e scuri, capelli ricci. L'effetto dell'alcool si mescola alla mia ansia sociale. Anche se le immagini sono più ferme adesso, nei caratteri somatici della ragazza che mi sta davanti rivedo lei, quella da cui sono fuggito due giorni prima, dopo tre anni assieme. Facce e corpi si sovrappongono, interferenze elettriche mi fanno vedere prima l'una e poi l'altra. Una, quella che ora mi sta davanti, è sudamericana, scura di pelle e di capelli, l'altra - distante migliaia di km - è caucasica, emiliana, rossa. Eppure nell'una rivedo l'altra. In quegli occhi grandi e scuri che mi sorridono rivedo lei, come l'ultima volta, prima di dirle mentendo "Ci vediamo lunedì".
Avevo ventisette anni. Mentire mi aveva procurato dolore e disgusto ma anche l'entusiasmo sadico di chi può finalmente fare un gioco sporco dopo troppo tempo di costrizione alle regole sbagliate. Tradire le aspettative altrui ha un fascino profondo e irresistibile quando si vive una vita infame. Ed io la vivevo. Così, invece di mantenere la promessa e rincontrare la mia fidanzata, un lunedì di inizio luglio ho preso un aereo in direzione Cancun, Mexico. Questo è l'inizio di tutto quello che è venuto dopo, di ciò che ricordo come un evento cardine della mia esistenza perché ha definito chi io fossi e chi sarei diventato. Ma la memoria è un puzzle dove i pezzi si rimescolano e devi rimettere tutto quanto al suo posto, altrimenti l'immagine non è completa. Perciò c'è bisogno di un ulteriore passo indietro per rivedere due o tre cose importanti, prima di tornare alla chica messicana che mi sta portando fuori dal locale notturno.

Durante il viaggio in aereo Mino, seduto nella comoda poltrona accanto alla mia, pareva l'immagine della felicità mescolata al corpo di un bel ragazzo dagli occhi chiari, muscoli allenati, colorito sano. Conoscevo Mino fin dalle scuole elementari e lui è sempre stato uno sportivo fottuto, tanto che poi è diventato un pallavolista di serie "A". Bello, simpatico e ricco. Uno stereotipo in effetti, ma era un mio amico. E ci legava qualcos'altro proprio in quel periodo. Entrambi stavamo affrontando un importante passaggio di formazione sul fronte emotivo-sentimentale.

Una mattina di qualche tempo prima, nell'ufficio dove facevo il praticante avvocato, Mino telefona usando quel tono serio che su di lui mi è sempre sembrato fuoriluogo. Aveva un modo troppo drammatico di esprimere i propri problemi, che in realtà erano semplici fastidi nella mia opinione. Non ho mai concesso il lusso del dolore nè dell'autocommiserazione al mio amico d'infanzia. Nella mia prospettiva era un ragazzo fortunato, quello a cui le cose non andavano mai dritte ero io. Perciò lo assecondavo con un sottofondo costante di invidia e impietosità.

"Sono nella merda" dice lui.
"Che è successo? Qualcosa di grave?" rispondo.
"Quella stronza di G. vuole che le paghi gli alimenti".
"Ma voi non siete sposati".
"Le ho dato un po' di soldi dopo che ci siamo lasciati" dice abbassando il volume della propria voce "Per aiutarla ad andare avanti senza di me. Ma adesso quella puttana ha chiamato un avvocato che mi ha chiesto altri soldi!" - fa rialzando il tono.
"Scusa, fammi capire. Vi siete lasciati un mese fa, ok, e poi tu le hai dato dei soldi?" - chiedo io, offeso perché non mi aveva domandato un parere a riguardo.
"Sì, lo sai che lei non lavorava. E' stata con me tanto tempo, mi sembrava giusto aiutarla".

Conoscevo la storia. I due si erano messi insieme mentre la carriera del mio amico sfavillava. Dopo poco tempo Mino era stato trasferito in Sicilia con un bel contratto di serie "A". Lei lo aveva seguito sull'isola pur di non lasciarlo solo, e con un coraggioso atto di rinuncia aveva abbandonato una brillante carriera da studentessa fuori-corso impiegata part-time in un negozio di abbigliamento.

"Quindi tu, dandole quei soldi, hai creato un precedente" pausa "Quanto le hai dato?" chiedo.

Silenzio. Cifra considerevole per vivere senza muovere un dito per un anno. Silenzio imbarazzato.

"E chi è l'avvocato che ti chiede altri soldi?" domando.
"E' una donna, mi ha mandato una raccomandata, ti passo nome e cognome".
"Adesso chiedo alla mia Boss (avvocato, donna, cattiva) e vedo di rispondere io per te".
"Grazie. Non ci posso credere! Quella puttana! Ma ti rendi conto?".

Sì, mi rendevo conto. Dopo una relazione di circa tre anni col mio amico, G. si vedeva scaricata e adesso sentiva la necessità di fare cassa prima di trovare un altro sportivo con cui accasarsi. Non lo dico con cattiveria, purtroppo quella predisposizione era evidente in quella bellissima ragazza; era lei stessa a perpetrare una modalità stereotipata di cacciatrice di dote. Tutto questo mi intristiva e mi metteva in allarme, perché anch'io in quei giorni ero sulla strada della separazione da F. e lei non sapeva niente delle mie intenzioni di fuga. Le vicende amorose del mio amico, che ammiravo, invidiavo e forse amavo di quell'amore maschile di ragazzo che sublima gli impulsi erotici prematuri in cameratismo, diedero un impulso fondamentale alla mia decisione. Avevamo ancora l'età della vera condivisione di intenti, sentimenti e sogni. E poi da parecchie settimane era nata in me un'insofferenza reale nei confronti della mia ragazza. Avevo provato a reprimerla, nasconderla e negarla senza riuscirci. Anche il suo odore aveva iniziato a infastidirmi.

Dopo aver raccontato il contenuto della telefonata con Mino alla mia Boss, i suoi occhi azzurri brillavano di sadismo.

"Lui non le deve dare un cazzo" aveva sibilato da dietro la scrivania piena di fogli, plichi, faldoni "Che tipo è la ex?".
"Sinceramente?".
"Sì".
"Stile velina, succhiasoldi, con tendenze narcisistiche alla  Uomini&Donne".
"Se l'è scelta bene lo sportivo".
"Già".

Un altro clichè.
La Boss aveva decretato: lei non aveva diritti e il mio amico non avrebbe dovuto darle nemmeno la ricca elemosina sganciata per ripulirsi la coscienza. Ma ormai era cosa fatta. A me toccava inviare un fax alla controparte per far capire che non c'era margine di accordo. E così, dopo aver allentato il nodo alla cravatta che indossavo, ho fatto.


Quella sera avevo raccontato a F. la storiaccia di Mino e G. Lei, col suo accento modenese, le aveva dato della troia però, velatamente, mi aveva fatto capire che se avessi fatto lo stesso scherzetto a lei, anch'io avrei passato un brutto momento. Quella minaccia era il riassunto della mia storia d'amore con F.; un alternarsi di passioni, gelosie, parentesi romantiche, risate, fumetti scritti a penna lasciati sul tavolo della cucina al mattino e coltellate. Il tutto condito da carnalità viscerale. Era stata la prima a occupare uno spazio nel mio armadio, la prima a lasciare lo spazzolino da denti nel mio bagno, la prima femmina in reggicalze che io abbia consumato. Con lei ho fatto viaggi, ho pianto quando a entrambi è morto il cane. Io e F. ci siamo abbracciati nei giorni di pioggia, sotto lo stesso ombrello rotto. Andavamo in bagno insieme, uno seduto sul cesso, l'altra a cavalcioni del bidet. Croce e delizia. Occhi grandi, una testa di capelli ricci e rossi, tette succose, culetto scattante, ironia sul filo di lama.
Ma tutte le cose belle, nuove e pulite che vivevo con lei non erano sufficienti a preservarmi dalla crisi esistenziale che, ciclicamente, mi gettava in ore piene di dubbi. Mi mettevo la cravatta e passavo il tempo a chiedermi perché stessi indossando gli abiti dell'avvocato, perché stessi interpretando un personaggio tanto diverso dal me stesso che avrei voluto, perché non trovavo felicità nelle cose. Come una ruggine l'incertezza mi corrodeva. Finivo per domandarmi e rispondermi sempre le stesse cose: "Devo mollare tutto? Amo F.? E' meglio fare finta di niente? Voglio stare solo? Non lo so. A volte sì, a volte no". L'estate si avvicinava in fretta e quando lei mi domandava "Che facciamo per le vacanze?" io avevo voglia di piangere.

Tra un fax e una raccomandata portavo avanti la questione di Mino contro G., che in fondo consideravo due fortunati imbecilli. Poi, una mattina, sono sceso dal treno delle ferrovie Nord e un cactus gigante mi è venuto incontro. Un enorme cactus con in testa un sombrero. Camminava verso di me e rideva. "Che cazzo ridi, cactus?", penso mentre la pianta grassa mi arriva davanti e mi porge un volantino: Viaggi in Mexico!

"Pronto".
"Sì".
"Ho scritto all'avvocata di G., pare che voglia collaborare".
"Meno male".
"Però insiste che le devi ancora qualcosa. Le ho fatto capire che la mia Boss fa parte della Lega in Difesa delle Donne e che è piuttosto incazzata a sapere che una collega provi a chiedere soldi per una che potrebbe benissimo andare a lavorare, non come quelle che hanno tre figli e i mariti figli di puttana. M'è parsa iniziare a collaborare. E poi c'è un'altra cosa…".
"Cosa?".
"Ha detto che dietro G. c'è la madre a spingere tutta la faccenda".
"Lo sapevo! Quella troia è peggio della figlia. Checcazzo, le ho dato da mangiare per tre anni. Stava a casa a fare un cazzo perché doveva studiare…".
"Scusa, ti interrompo subito. Questi sono sfoghi che di solito fa un marito. Tu non sei suo marito. Lascia perdere. Adesso non devi fare niente, devi solo fartela passare".
"Vorrei ammazzarla".
"No, non conviene. Senti un'altra cosa".
"Dimmi".
"Te la butto lì, così, senza impegno…".
"Cosa?".
"Stamattina ho visto un cactus gigante…".
"Cazzo dici? Cosa ti sei fatto?".
"No, aspetta. Pensavo, se tu in questo periodo non hai impegni con gli allenamenti…".
"No, per un mesetto niente, poi riprendo a fine luglio".
"Ecco. Allora, Mino, leviamoci dai coglioni. Partiamo".
"E dove vuoi andare?".
"Mexico, socio".
"Fai conto che domani abbiamo i biglietti, avvocato".

Il viaggio in aereo era stato lungo, con la notte artificiale riprodotta per far dormire i passeggeri. Poi allo sbarco a Cancun io e lo sportivo avevamo preso un taxi per raggiungere Playa del Carmen. Seduti sul sedile posteriore di quel catorcio guidato da un tassista baffuto avevamo visto il Messico da dietro i finestrini. Grandi strade asfaltate, vegetazione oltre le case di legno, distributori di benzina della Texaco. Gli operai edili sui lati delle strade, fermi, coi caschetti in testa, a scrutare l'orizzonte per vedere il furgone che li avrebbe riportati a casa. Il cielo alto e grigio. Nuvole messicane coprivano le nostre teste piene di pensieri. Stavamo zitti io e Mino, ognuno amaro per i fatti propri. All'arrivo ci aspettavamo di trovare il sole, lo pensavamo senza dirlo, invece nuvole, nuvole, nuvole.

Il nostro hotel stava ai confini esterni del lungo corridoio di case e negozietti per turisti che poi è Playa del Carmen. Ad aspettarci c'erano un paio di italiani emigrati là, si occupavano della gestione dell'hotel e conoscevano Mino per fama: "Lo sportivo, arriva lo sportivo".
Oltre alle nuvole grigie, ai pensieri malsani e ai sensi di colpa, mi seguiva anche uno status sociale che credevo d'avere lasciato a casa. Mino, in patria, godeva di una serie di privilegi che gli arrivavano dalla notorietà sportiva, dalla bellezza e dalla ricchezza. Soprattutto dalla ricchezza, che attirava il servilismo di amici e conoscenti che lo idolatravano come cani col padrone. Era attorniato da gente che pareva sfiorarlo per prendere un po' della sua luce sentendosi per un attimo parte di un sistema dorato. Mino era un mio amico, fin dalle elementari, l'ho già detto, e in quanto tale per me restava quel ragazzetto con cui andavo in bicicletta nei pomeriggi di primavera. Eppure la nostra amicizia, dopo quel viaggio in Messico, è diventata sempre più fragile, lontana, estranea. Posso dire, oggi, di aver creduto ci fosse una fratellanza tra me e Mino, ma è stata solo una mia idea. Ho pensato che da parte mia esistesse un legame forte, di quelli che poi chiami "l'amicizia vera" nei confronti di qualcuno. Invece era una proiezione e un reale sentimento di rivalsa. Ma forse mi sbaglio anche su questo.

Appena siamo scesi dal taxi, un tamarro dai capelli appuntiti e lo sguardo da cagnaccio col suo socio smilzo ci sono venuti incontro, salutando con grandi strette di mano Mino e quasi ignorando me. Pareva fosse arrivato Magic Jonson nel loro cazzo di albergo a tre stelle. 
La nostra stanza era bellina, pulita, col balconcino sul retro, l'aria condizionata, due letti da una piazza e mezzo e le lenzuola bianche. Abbastanza rincoglioniti avevamo avuto il tempo di sistemare i bagagli, farci una doccia e stramazzare. Ma prima lo Smilzo mi aveva portato un fazzoletto di carta accartocciato con dentro della marijuana.
"E' roba messicana!" aveva detto lui.
"Grazie" avevo risposto io.
L'umore non era alle stelle. Avevo fumato giusto per gradire, poi il sonno aveva vinto.

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Il giorno dopo, con un sole pallido oltre le finestre, il Cagnaccio ci presenta un'italiana che si occupa in parte della gestione dell'hotel insieme a lui e in parte muove il culo come insegnante di danza lì a Playa. La Ballerina squadra Mino come una femmina in calore, sorride a me con un minimo di curiosità. Lo Smilzo ci ha detto che la Ballerina prima stava col Cagnaccio, ma la storia d'amore era finita.
Mino e io, costume da bagno e telo da mare, siamo pronti per andare in spiaggia ma prima facciamo colazione sotto un portico stracolmo di sedie spaiate e tavolini di legno dove un paio di messicani cicciotti ci danno pane tostato, succo d'arancia e marmellata: colazione continentale si chiama.
Con quello stato d'animo simile alla malinconia mescolato al jet-lag che non ci abbandona arriviamo in spiaggia. Davanti a noi il mare dei Caraibi. 
Immersi tra le onde guardiamo la spiaggia allontanarsi mentre ci lasciamo portare al largo dalla corrente. Senza mai dirlo ad alta voce, ognuno pensa alla propria "sposa" abbandonata. 
Sul litorale le palme sono alte e il volo dei pellicani, in squadre di cinque o sei, sembra quello di strani aerei scuri e stilizzati.
Ancora nuvole. Messico e nuvole.
Nel 2007 i Bluebeaters rompevano i coglioni con questo testo:

"Lei è bella lo so
è passato del tempo ed io 
ce l'ho nel sangue ancor.
Io vorrei, io vorrei, 
ritornare laggiù da lei
ma so che non andrò.
Questo è un amore di contrabbando
meglio star qui seduto
a guardare il cielo davanti a me.
Mexico e nuvole 
la faccia triste dell'America
il vento soffia la sua armonica,
che voglia di piangere ho…"
In Italia la passavano continuamente in radio e la gente la cantava. E a noi, adesso che eravamo in Mexico, faceva un po' ridere e un po' piangere. Intanto il sole stava nascosto dietro quelle cazzo di nuvole tristi. 
Ogni tanto tiravo fuori dallo zaino il mio cellulare, che restava muto, neanche un vaffanculo da Foxy Lady che intanto aveva ricevuto la mia email in cui le confessavo d'essere partito e di non amarla più. Prima di scappare avevo usato il vigliacco metodo della scrittura per lasciarla. E avevo usato quel metodo perché - giuro - guardandola negli occhi non ci sarei mai riuscito. Foxy, dopo aver letto il contenuto, aveva prima pianto e poi urlato. Ma il suo silenzio adesso mi devastava. 
Il cellulare di Mino, al contrario del mio, squillava di continuo e riceveva sms di incoraggiamento. C'era tutta la caterva dei suoi amici in Italia che scriveva cose tipo "Hey campione, quante te ne sei fatte?", "Grande, hai scopato? Fattene una anche per me!" oppure "Mi raccomando, non scopare troppo che poi ti devi allenare, ma sopratutto dobbiamo andare insieme a ballare all'Hollywood!". E lui sempre dietro a rispondere a tutti perché voleva bene a quella gente e la considerava la sua famiglia. Soprattutto alcuni di loro, coi quali era cresciuto nella stessa strada di periferia, con le case attaccate le une alle altre, stessa parrocchia, stessa razza. Io invece ero quel ragazzetto arrivato dopo, dal sud, e mai entrato a far parte della famiglia allargata di Mino. E questo mi faceva sentire ancora più estraneo, ma pensavo che col tempo questo tipo di cose si sarebbero risolte. Ma non era così, perché esistevano le regole ferree della "compagnia" a cui dovevo sottostare. La "compagnia" è un gruppo di persone che in realtà è un clan con regole non scritte, con gerarchie interne, dove la personalità del singolo è sacrificata all'armonia del gruppo piramidale. Nella "compagnia" Mino era la star, il principe regnante, e i suoi amici più stretti erano i ministri. Poi c'erano i conoscenti, ossia i sudditi adoranti, e in fondo c'ero io, l'esterno. Così mi chiamavano: l'esterno. E quando domandavo "L'esterno? Cioè?", loro rispondevano "Tu sei uno che è arrivato dopo. Noi ci conosciamo da più tempo, quindi siamo più amici di Mino…". Ma andate a fare in culo. Adesso con Mino ci stavo io in spiaggia, mica loro. Ma non mi accorgevo che, invece che stargli di fianco alla pari, ero un altro di quelli che approfittavano del suo vantaggio di denaro e bellezza per sentirmi migliore.
Intanto lo Smilzo e il Cagnaccio, per non essere da meno degli altri topi di fogna, avevano deciso che quei dieci giorni in Mexico (io e Mino) li avremmo dovuti passare insieme a loro, seguendo attività e programmi per turisti (pagando $$$). Perciò, dopo il primo giorno di relativa libertà, ci avevano presi e portati nella zona del divertimento serale di Playa, dove un incrocio di viette si trasforma in una piazza piena di locali notturni, bar, ristoranti e pisciatoi all'aperto. Tra questi posti c'è il Santanera, un locale buio dove si può fumare dentro e dove si ascolta minimal-house. Studenti americani, surfisti, gay colorati, chicas, stanno come me pigiati sotto la consolle a ballare suoni inspiegabili che ti entrano nel cervello. Sto là, dopo un paio di giri di tequila fredda, coi lampi di luce strobo negli occhi. E sto bene. Intanto Mino, lo Smilzo e il Cagnaccio si sono spostati nell'altra ala del Santanera, quella più commerciale, come se l'Hollywood avesse aperto una succursale in Mexico. Tavolo riservato, bottiglia di vodka, frutta mista, ragazze coi tacchi e cocainomani sparsi attorno. Non è il Mexico che pensavo. Però, già che ci sono, mi getto anch'io nella mischia debosciata che gravita attorno a Mino e provo a non rompere troppo i coglioni (perché alla fine non sono una fidanzatina che non le va mai bene niente). Ecco perché mi attacco alla bottiglia di vodka: per farmi piacere ancora di più questo carnevale, e tra un sorso e l'altro mi ritrovo una giovane mexicana davanti agli occhi.

Ok, sono appena uscito da un locale notturno pieno di gente colorata, americani in vacanza e una bella ragazzetta dagli occhi grandi e i capelli ricci mi sta portando per mano verso una piazza chiassosa. Intorno si balla, si beve, si ride. Fa caldo. Finalmente abbranco la mamasita e questa si lascia baciare con tanto di lingua. E' andata, Foxy Lady, sto baciando un'altra. Fino a oggi ti sono stato fedele, adesso invece - vedi - bacio un'altra. Ma puttanaevacazzo quanto t'assomiglia 'sta mexicana! JesusMaria santissimi. Sto limonando con la sosia mexicana della mia fidanzata! 
Intanto Mino, tutto ringalluzzito, mi passa accanto con la siciliana porca, che barcolla sui tacchi. Ecco qua un altro puttanone, penso io.
"Io accompagno lei al suo appartamento" dice Mino.
"Ok…" dico io, e rivolto alla versione messicana di Foxy "Senti un po', desculpame chica. Y nosostros que vamos a hacer ahora?" domando.
"No se" risponde lei maliziosetta "Si tu lo quieres està una amiga a la cerca, vamonos tu y yo…".
Hay carramba! Foxy Brown mi porta a casa di un'amica. Hai capito. Sono diventato un figo anch'io a forza di stare vicino allo sportivo!
"E vamonos" dico io, e poi a Mino "Zio, ci vediamo all'albergo, statti buono".
Così, ognuno con la sua femmina, ci allontaniamo dal locale dove la musica continua a rintuzzare le pareti scure mentre il carnevale sudamericano consuma la notte tropicale. Che poeta...
Foxy Brown mi dice di chiamare un taxi. Come un taxi? Non era vicina 'sta amica? Sì, ma ho i tacchi. Già, i tacchi. Ma non sarebbe meglio scopare in spiaggia? No, è pericoloso, aquì te matan, ti uccidono! Meglio di no, allora.
Nel taxi guidato dal serissimo messicano, sul sedile di dietro, faccio di tutto per tenere vivo il fuoco dell'erotismo palpeggiando la signorina. Ci sono i pensieri in agguato, i dubbi killer che mi inseguono. Però il viaggio in auto dura poco. Pago io, naturalmente. Scendiamo dal taxi e siamo in una stradina con casette basse, dove dovrebbe abitare l'amica di Foxy Brown. E mai, in nessun momento, ho pensato che fosse una trappola, una stronzata, quella di seguire la ragazza messicana in quel quartiere buio. E in effetti non era una trappola, però le cose non sono andate come mi ero preparato a pensare che andassero. La chica mi bacia, è gentile, ma pare che l'amica non sia in casa. Ma come? Le avevi parlato al telefono 5 minuti fa? Eh, sì, però adesso non è possibile andare da lei. Quindi? Guarda caso qui c'è la mia macchina, dice lei. E c'è 'sta cazzo di macchina, in effetti. Allora? Io vado a mì casa ahora… Tu vai a tua casa, ahora? Claro, dice lei. Ci vediamo domani, Corallito. Tutto questo bordello per un arrivederci a domani? Siamo arrivati fino a qui, col taxi, i tacchi e ora me ne devo tornare in albergo, a piedi? E forse in albergo c'è quell'altro con la Porca siciliana e io devo restare chiuso fuori? Ma puttanaevacazzo, giudaporco, vaffanculo…

Mentre la messicana riccioluta fa manovra per scomparire nella notte, io cammino verso l'albergo. Non ricordo che ore fossero, era tardi, quasi giorno. Come un randagio cerco le tracce della strada del ritorno, lungo il corso desolato di Playa del Carmen, dopo aver limonato con Foxy Brown, ossia la sosia messicana della mia (ex?) fidanzata. All'improvviso tutte le luci si sono spente. Ho ancora il sapore del suo rossetto sulle labbra ma… adesso è come una botta di cocaina che è scesa all'improvviso.
Mi accendo una sigaretta e penso: 
"Chissà se la messicana aveva previsto tutto..." .
"Cioè, mi ha detto che saremmo andati a casa dell'amica… ma sapeva già che le stavo solo pagando un taxi per riportarla alla macchina?".
"Oppure voleva scopare e io ho fatto qualcosa di sbagliato?".
"Forse pensava di arraparmi un po' e poi farsi pagare?".
"E' un'amica del Cagnaccio e dello Smilzo?".
"Chi ha pagato la bottiglia di vodka?".
"Perché non ho scopato..?".
Mentre mi pongo queste questioni una voce familiare dice:
"Dove cazzo vai, stonato?".
E' Mino, il mio socio, impegnato in atteggiamenti intimi con la Porca siciliana, seduti sotto il portico di un residence dall'aria moderna.
"Dove vado? Credo in albergo…" rispondo io.
"Hola" dice la porca.
"Tutto a posto voi due?" faccio io.
"Sì, lei mi stava raccontando un po' di cose su Playa, le spiagge da andare a vedere…".
E mentre Mino parla, la Porca gli strofina una mano accanto alla patta dei pantaloni, non curante di me. Che carina. Osservo la scena e penso che questo sia un modo per dire anche all'amico che li sta guardando, cioè io: "Hey, io sono una ragazza meridionale ma qui in Mexico mi sono emancipata, vedi? Tocco un ragazzo davanti a te, sono una femmina senza paura di essere considerata…". Un troia, sei una troia, lascia perdere le autoconsiderazioni, te lo dico io: troia.
Sto rosicando, comunque. Con Mino rosico, perché si sceglie le ragazze fissandole da lontano, come un predatore, e quelle gli fanno un sorrisino malizioso, poi lui se le va a prendere. Per me è sempre stato il contrario. 
"Vai in albergo, quindi?" chiede Mino.
"Sì, ci vediamo là. Ciao bella…" dico io alla Porca.
Raggiungo l'hotel, ma la porta principale è serrata. Un cartello invita i clienti a suonare il campanello per chiamare il custode. Suono una volta, niente. Suono due, un cazzo di niente.
Mi sposto sotto il portico pieno di sedie spaiate dove abbiamo fatto colazione al mattino. L'alcool che avevo nel sangue ormai è svanito, la stanchezza invece sale e un'idea stupida affiora. Decido che adesso mi faccio un caffè. Giro dietro al grosso bancone di legno. La macchina per fare il caffè è accesa. Apro un paio di cassetti, trovo le cialde, sgancio la pipetta di ferro, prendo una tazzina. Frrrrrrrr… esce il caffè. Intanto come l'ombra del diavolo Mino compare sotto il portico.
"Che cazzo stai facendo?" dice.
"Faccio il caffè, ne vuoi?".
"Perché non sei in camera?".
"Perché non m'hanno aperto".
"Come cazzo facciamo?".
"Boh".
"Fammi un caffè…".
Ancora una cialda, altra tazzina.
"Com'è?" chiedo io.
"Fa schifo" dice Mino.
"Bene".
Un tizio con una torcia elettrica ci illumina. Per un attimo credo ci spari addosso invece è il custode dell'hotel. Ci fa entrare, piuttosto incazzato, chiedendoci perché non abbiamo suonato il campanello. Noi gli rispondiamo di averlo suonato il campanello, ma forse lui non ci ha sentiti, perché forse si stava facendo una sega nel retro, eh? Amico, ti stavi toccando l'uccello, eh?!? Siamo stanchi, facci entrare checcazzo… vado a dormire adesso. Ho limonato con una messicana ma non ho scopato. Foxy Lady vs Foxy Brown. Prima mi ha detto che mi portava da un'amica e poi niente. E tu? La Porca? Domani? Vi vedete domani? Bravo, bravo, buonanotte Mino… sono stanco, sono… non lo so… chissà Foxy adesso… chissà se piange per me… io adesso non lo so se la amo, o forse la amo di più, ma ormai gliel'ho scritto, capisci? Ho scritto delle cose brutte, delle cose che non puoi tornare indietro. Sto male, sto male, come fosse l'eroina, zio, l'eroina…

fine prima parte