martedì 29 maggio 2012

Down in Mexico, Back to Home*


"Per imparare certe cose bisogna saperne disimparare certe altre" 
Arturo Graf

“Le catene che più ci legano sono quelle che abbiamo spezzato” 
Antonio Porchia



Down in Mexico: Back to home

Eccomi qua: valigia da una parte, chiavi in mano, fermo davanti alla porta del mio appartamento. Milano, luglio 2007, dopo il Mexico.

Il cocktail di jet-lag, abbronzatura tropicale, ricordi sconnessi e paura di ritornare alla vita lasciata sospesa sotto il Tropico del Cancro mi tiene sullo zerbino. Cosa troverò? Chi mi aspetta? Se non entro, non lo saprò.


La verità sta dietro quella porta: la stessa che mi ero chiuso alle spalle e che ora devo riaprire, ripiombando nella realtà. Sembra una banalità, ma se ci pensi bene il momento in cui rimetti piede a casa dopo un lungo viaggio ne segna definitivamente la fine. L’evasione è finita. Si torna dentro. E dentro, tra le stanze, oltre alla polvere, ritrovi i fantasmi da cui eri scappato. Calarti fisicamente nella quotidianità raddoppia l’angoscia. Come un adolescente rientrato tardi, spero di non far rumore. Inserisco la chiave nella serratura.
Trick track.

Ma prima, meglio chiudere la parentesi sudamericana.


Ottavo giorno in Mexico.

Non mi sono fatto nessuna ragazza argentina. Il mio unico obiettivo – e rifugio mentale – si è dissolto. F. riappare, insieme al terrore di non riuscire mai più – mai più – ad avere un’altra donna. Ci credo, davvero. L’autostima è a brandelli. Ho la febbre alta. Sciroppo, tachipirina, la gola chiusa come un pugno.
Resto in stanza fino a sera.
Mino esce con lo Smilzo e il Cagnaccio.
Io sogno.
Sogno la piramide di Chichen-Itza. Alta, squadrata, con il sole dietro e nuvole attorno. Solo quello. Bevo acqua. Torno a dormire. Sempre la piramide. 'Affanculo.


Nono giorno. Ultimo.

Riesco a trascinarmi fuori dal letto.
Colazione sotto il portico.
Lo Smilzo finge premura. Il Cagnaccio ghigna dietro i vetri. La Ballerina mi accarezza la testa come a un ragazzino malato. 

Bevo succo, ingoio qualcosa solo per mandare giù le medicine.

Un barista cicciottello mi porta del miele di foresta.
Mi guarda con occhi da indio: zero pietà, solo una ferma gentilezza.
Grazie.


Mino vorrebbe lasciarmi in hotel, ma decido che oggi – l’ultimo giorno – devo tornare in spiaggia. Sembriamo “Un uomo da marciapiede”, lui Jon Voight, io Dustin Hoffman con la tubercolosi.

Per strada incontriamo la Siciliana. Mino la saluta, io faccio cenno. Ha un fazzoletto nei capelli, shorts anni ’50, zeppe. Come metà delle ragazze viste qui a Playa. Perché vestite così? Boh. Mino le si avvicina, ma ora la luce del sole la inchioda. Sotto il trucco: una ragazzotta volgare, cicatrice sul collo, svanita la spavalderia. Mino taglia corto.


“Ma è un cesso!” dice tornando da me. “Non me n’ero accorto così tanto…”

“Mmh”


Frega più niente. Te la sei fatta tu. Io ho lasciato andare la mia messicana solo perché mi ricordava quell’altra. E poi mi sono fissato su una argentina volgare, solo perché volevo fare come te, Mino. Arrivare, puntare, scopare e via. Volevo essere freddo. Ma se il risultato è vergognarsi ogni volta che la rivedi, allora tienitele tutte tu. 


Stendiamo i teli sulla sabbia.
Fisso il mare.

È finita.
Si torna a Milano.
Al lavoro che mi hanno scelto i miei genitori.
A F., che forse mi aspetta.
Le dirò che ero confuso.
Che l’amo.
Che possiamo andare a vivere nella sua casa in campagna.
Che se resta incinta teniamo il bambino, la sposo, mollo tutto.

Ma poi?
Poi a cinquant’anni vado a Milano, vedo che il mondo è andato avanti senza di me. Mi scopo una più giovane. Mi incazzo coi figli. Alla fine mi sparo.

Che ne dici, F.? Lo teniamo il bambino?

No.


Mino manda sms ai suoi amici per l’eroico rientro.
Io taccio.
Ho già fatto le valigie.
Torno in acqua. L’ultima immersione nel mar dei Caraibi.
Il cielo è grigio.

Basta così.


Verso sera, souvenir. Mino è categorico: “Dobbiamo portare qualcosa agli amici.” Contento tu.


“Stasera si cena tutti insieme” dicono Smilzo e Cagnaccio.

Tutti.
Ballerina, Messicana, Matto, italiani vari.
Il ristorante è di un altro italiano che vuole l’autografo dello Sportivo da appendere.
Ma certo, cazzo. Mangiate pure. Io non posso deglutire.
E chi è quello là? Quello vicino al Matto. Messicano. Camicia sbottonata, collana d’oro, sguardo da spacciatore. E indovina? È uno spacciatore.
Perfetto.

Mentre sorseggio acqua col ghiaccio, osservo. Tutti perfettamente a loro agio. Tutti, tranne me. E non mi stupisce che Mino sia più simile a loro che a me. Mi stupisce non essermene accorto prima. O meglio, sapevo, ma facevo finta. Avevo idealizzato un amico come si idealizza un amore. Gli avevo attribuito qualità che non aveva. Per debolezza. Per paura. 27 anni a fare le cose a metà, per accontentare tutti. Tranne me.


Finita la cena, ci spostiamo al bar del Cocainomane. Il terzo socio è uno che conoscevo alle superiori. Un ex zarro con lo scooter. Parliamo. Mi offre tequila. Dico che ho mal di gola. Insiste. Bevo. Sapere che sto per andarmene mi dà sollievo. 


È stato un casino. Pensavo fosse un viaggio di svolta, ma ho perso. Perso nel modo sbagliato, nel gioco sbagliato.

La Tipa del Cocainomane smascella. Il Matto e il Tarchiato mi coinvolgono con la tequila fredda.
Bevo. La gola si apre.

“La tequila disinfetta!” dice il Matto.

Vero.
Torno a parlare.

“Mino, bevi questa roba!”
“Cos’è?”
“Tequila fria!”

Beviamo.
Gente attorno, risate, musica.

Ultimo giro.

Prima del Santanera, ci trascinano in una discoteca turistica. Stessa musica da Milano. Perfetta per Mino. Bevo. Ballo. Mi lascio andare. La Ballerina si muove con la Messicana.
Il Cocainomane gira per il locale, la Tipa ormai fuori di testa. Mi avvicino a una sudamericana birichina. Ride. Parlo, mi risponde. Poi arriva il Matto con la bottiglia: altra tequila. Brindiamo. Ballo. Stringo la Ballerina. Il Cagnaccio ci guarda. Lei si allontana. Guardo di nuovo la Birichina. Ma ho esitato. Il Cagnaccio si lancia su di lei, la bacia. Era mia. Mi sono distratto. Ora è sua. Cerco di reagire. Riprendo la Ballerina. Lei ora si struscia con un ragazzetto muscoloso. Tutti andati.


Entriamo al Santanera.
Luci scure, atmosfera più underground.
Tra il fumo e la musica, parlo con due ragazzette.
Una mi stringe, poi mi guarda e dice:

“Ay Nelson, tu eres un mujeriego!”

“Què?”
“Un mujeriego! Uno che si fa tutte!”

Che cazzo dici? Io?

Poi se ne vanno. Anche queste. Mino intanto parla con una 19enne latina.
Il Cocainomane mi si avvicina: “Che fai qui? Perché non ti stai facendo una tipa? Tutti stanno con una ragazza! Guarda!”
“E che devo fare?”
“Trovati una ragazza. Sennò sei frocio.”

Sono finito a farmi insultare da uno spacciatore messicano che mi ordina di comportarmi da maschio. E scatta qualcosa. Riavvolgo il nastro. La Birichina: persa. La Ballerina: un errore. La seconda tipa: andata. Il mio amico: altrove. E ora questo tizio mi insulta. Perché glielo permetto. Glielo permetto perché io stesso non so su che strada camminare.
Basta.
Vado in bagno. Penso ad Amy Winehouse. Nel 2007 tutte si vestivano come lei. Amy cantava sempre la stessa cosa: “Preferisco morire che smettere.” E così ha fatto. Io no. Io non voglio morire. Meglio “frocio” che testa di cazzo.


Esco. Torno in pista. Vado al bancone. Ultime due tequila con Mino.


“Alla salute e addio, amigo”


Sotto la consolle del dj, mi mescolo a fumo, luci strobo, beat. Il Mexico mi ha dato qualcosa: Un personaggio stronzo&messicano che mi ha fatto ritrovare l’orgoglio. La minimal-house gira nel sangue. Tutti vibrano alla stessa onda. Buena onda. Sì.
Non mi importa se non faccio ciò che gli altri si aspettano.
Mi sento bene.
Sorrido.

Accanto a me c’è la ragazza che avevo notato giorni fa.
È bellissima.

La guardo. La saluto.
Le parlo.
Mi sorride.

Le sussurro qualcosa all’orecchio, le sfioro la guancia.

E non dirò mai cosa le ho detto. Come Bill Murray con Scarlett Johansson nel finale di Lost in Translation. 


Cammino lentamente verso l’albergo. Non ricordo che ore fossero, era tardi, quasi giorno. "Come un randagio cerco le tracce della strada del ritorno, lungo il corso desolato di Playa del Carmen" Auto-cit. Down in Mexico part I°.


Entro in stanza barcollando. L’alcol pretende che io svenga sul letto, ma prima di accontentarlo faccio una cosa che forse avrei dovuto fare giorni fa. Avete presente "Trainspotting", quando Rent è in crisi d’astinenza e lo spacciatore gli dà una supposta d’oppio? Ecco, io apro la borsa dei medicinali di Mino e trovo una supposta di Tachipirina. Massiccia. Mi abbasso i pantaloni, mi accuccio sul pavimento e mi ficco il bussolotto oleato. Umiliante, ma efficace. Butto i vestiti su una sedia e crollo. Dormi, Nelson. Pesantemente, come non facevi da tempo.


Ultimo giorno di Mexico.

Mi sveglio come un uomo nuovo. La gola è libera.


“Cazzo Mino, sto bene!”
“Bravo, proprio oggi che ce ne andiamo” fa lui, malmostoso.


Scendiamo a fare colazione.
C’è un vento tranquillo, il cielo è pulito.
Il sole brilla.

Sotto il portico colorato ci sono tutti, tranne il Cocainomane e la Tipa strafatta.
Secondo me non esistevano neanche. Spiriti messicani, quei due.

Qualcuno beve caffè, altri fumano la prima sigaretta del giorno.


“Cosa fate oggi?” chiede la Ballerina.
“Andiamo in spiaggia a salutare il mare. Abbiamo ancora un po’ di tempo prima del taxi per l’aeroporto.”
“Ti è passato il mal di gola?” chiede lo Smilzo.
“Completamente, zio.”
“Ah”
“Allora veniamo anche noi” dice la Ballerina, indicando la Messicana.

Vuole sfruttare ogni istante con Mino.
Il Cagnaccio rogna in disparte.

Lo stesso Dio dispettoso che ha fatto il broncio per nove giorni, oggi si è ammorbidito.
Oggi il Mexico sembra davvero il posto più bello del mondo.

Playa del Carmen – oggi – brilla.
Arrivo in spiaggia e penso: “È uno scherzo?”

Gente ovunque. Surferos. Ragazze in bikini che mi guardano.
Mi guardano me.
Mi viene da ridere. Entro in acqua.

È trasparente, calda, si vede il fondo.
Nuoto tra mare e cielo.
Mi sembra di essere arrivato adesso.

Il tempo passa. Esco.


“Nelson, però, non avevo notato che avessi quelle belle spalle! Fai sport?” dice la Ballerina.
“Sì, faccio boxe.”
“Ah!”

Te ne accorgi solo adesso, bella mia?
Forse è vero. Fino a ieri avevo la testa piegata, le spalle curve, sempre un passo dietro Mino.

Oggi no.

Funziona così. L’ultimo giorno è quasi sempre il migliore. Giusto per farti andare via a malincuore. L’apprezzamento della Ballerina si mescola ai colori, al buonumore, al suono delle onde. Ma è tempo di tornare.


Milano. Davanti alla porta di casa. Primo giorno.


Non posso restare per sempre sullo zerbino. Giro la chiave. Spingo la maniglia. Eccola. È casa. Quanto tempo è passato? Dieci giorni o dieci anni? Quando nella tua casa qualcosa è cambiato, lo senti. Non subito. A livello inconscio. Ma poi lo vedi.

I vuoti.
Nell’ingresso. In cucina. In bagno. In camera.
Sul balcone.

F. ha portato via un po’ di tutto.
Un portaspazzolino a forma di rana.
Cravatte. Camicie. Un bastone con manico d’argento.
Dadi. Libri.
E un quadro. Una stampa di Tamara De Lempicka. Me lo aveva regalato per la laurea.

Mi tremano le gambe. Ogni passo è una coltellata.

È questo il divorzio?
Credo di sì.

Urlo.

“Bastarda!”

Poi faccio quello che non avevo ancora avuto il coraggio di fare. Prendo il cellulare. Digito il numero.


“Ma che cazzo hai fatto? Sei impazzita?”
“Ma che cazzo vuoi, stronzo? Era roba mia!”
“Non era roba tua, stronza! Era roba mia!”
“Ma stai zitto”
“Come ti sei permessa? Ti rendi conto? Mi hai svuotato casa!”
“IO?! IO MI DEVO RENDERE CONTO DI QUELLO CHE HO FATTO?!?”

“Sì!”
“STRONZO, VIGLIACCO, UOMO DI MERDA! POVERO DEFICIENTE CHE SE NE VA IN MESSICO DOPO AVERMI LASCIATA CON UNA CAZZO DI EMAIL! BASTARDO! SAI COME SONO STATA? SAI COSA HO PROVATO IN QUESTI DIECI GIORNI? MISERABILE, UOMO DI MERDA! COME HO FATTO A STARE CON UNO COME TE? ME LO DEVI DIRE TU! PERCHE’ IO NON CI CREDO ANCORA! COME CAZZO HO FATTO?”

Silenzio.


È questo il divorzio?

Ne avevo visti tanti, in tribunale, facendo pratica da avvocato.
Ma ora lo so. Sì. È questo.


Cosa resta dopo la spallata che ha fatto crollare il castello di carte? Restano ferite profonde, dure a richiudersi, e cicatrici sparse. Restano amarezza, dubbi e giornate lunghe e solitarie. Restano tantissime ore vuote che ho riempito immergendomi nei film – vivendo le trame dei protagonisti – oppure nei libri. Ecco perché cito di continuo personaggi e situazioni viste su pellicola.

Senza più F. ero tornato a essere un ragazzo solo. Andavo al lavoro, la mia Boss – l’avvocata dagli occhi di ghiaccio – pareva contenta: adesso mi aveva tutto per sé. Ero ancora imprigionato nello studio legale, dove passavo più tempo solo per non tornare a casa.
Anche i contatti con Mino, dopo il Messico, si erano diradati – come avevo previsto. Di conseguenza, pure le uscite con la sua compagnia erano diminuite. Ormai ero l’amico esterno. Sempre più esterno.

Così ho iniziato a reinventarmi. Nuovi contatti, nuove occasioni.
Lentamente, giorno dopo giorno, scansando crisi d’astinenza da Foxy (che dopo la telefonata non avevo più sentito), ho ripreso contatto con certi vecchi amici: i robbosi del liceo, gente da pub inglese, grigiastri, senza troppe aspettative.
Ma non ero migliore di loro, anzi. Poi c’erano quelli che non sono mai mancati. 


Comunque, quello che non ti dicono mai nei libri o nei film è questo: dopo la rivoluzione, la cosa più difficile è la ricostruzione. Nei film lo capisci in tre secondi: ti mettono una panoramica della città, una scritta in sovraimpressione tipo “six months later”, e via. Ma nella realtà, vivere sei mesi in una situazione di crollo totale – Amore, Amicizia, Lavoro, Famiglia – è un tempo lunghissimo. Sono giorni di merda. E solo se arrivi alla fine puoi dire: come cazzo ho fatto a resistere? Perché son tutti bravi a dire che bisogna avere il coraggio di cambiare. A reagire. A tagliare ciò che ci fa stare male. Ci sono mille libri e film che raccontano di qualcuno che scappa, combatte, si ribella. Ma poi? Nessuno ti dice che dopo il casino inizia il peggio. È facile prendere un esercito, portarlo in Medio Oriente e bombardare tutto per abbattere il Dittatore. Il difficile viene dopo: quando la popolazione – ferita, incazzata, senza risorse – quasi quasi lo rivorrebbe, il Dittatore. Così è la mente umana. Dopo il crollo, la prima cosa che fa è resistere alla guarigione. Quando stai male, non vuoi la cura. No. Vuoi un sedativo. Perché svegliarti e dire: ho costruito me stesso su fondamenta sbagliate, fa un male porco.


Dire a te stesso:
– Mi sa che avevo un amico immaginario.
– Mi sa che l’amore che ho vissuto era una ripetizione tossica di quello tra i miei genitori.
– Mi sa che il lavoro che faccio è l’opposto di ciò che sognavo da bambino.
– Mi sa che il mio carattere è ancora da adolescente.


Tutte queste cose fanno male.
E bisogna dirle.
Altrimenti sarebbero tutti capaci a ricominciare da capo.

Ma la verità è che ammettere di aver sbagliato tutto fa male nel profondo.
Fa così male che molti preferiscono non cambiare, piuttosto che affrontarlo.
Meglio avvelenarsi lentamente.
Io, però, ero andato troppo oltre.


Dopo il “divorzio” con F. ero dimagrito parecchio. Facevo pugilato tre volte a settimana. Il resto del tempo lo passavo in studio legale o a guardare film e leggere libri.
Avevo passato l’estate come un rimbambito perennemente stravolto. Ma avevo fatto sesso. Nonostante le difficoltà iniziali, mi si erano presentate alcune occasioni e ci ero andato a capofitto, senza pensarci. Ogni volta che mi tornava in mente il Messico, con le esitazioni che avevo avuto, mi ripromettevo: mai più. Così ho avuto piccole avventure. E come F. aveva svuotato casa mia, io ho svuotato altre donne. Le prendevo e poi scappavo.


Non sono ancora pronto.
All’inizio era vero. Poi è diventato solo un sedativo. Avvicinarmi fisicamente sì, ma emotivamente impossibile.

Ripensandoci, credo che quella forza – quella disperazione/volontà – che mi ha permesso di spezzare i vincoli emotivi con Amici, Famiglia, Lavoro… venisse proprio da quell’orgoglio ritrovato in Messico. Ero nella fase dello svuotiamo casa: era il momento perfetto per fare piazza pulita e cambiare vita. Poi, dopo l’esproprio violento di F., si era attivato in me qualcosa di nuovo: cinismo e rabbia. Sentimenti tossici, ma fondamentali se vuoi andare avanti e non crollare. Ti difendono. Ti blindano. Ti rendono allergico alle minchiate. Ma vanno dosati. Altrimenti diventano peggio di ciò che combatti. L’orgoglio ti aiuta a mandare a fanculo chi ti ha usato, ma se cresce troppo diventa un’armatura che ti isola da tutti. Il cinismo ti protegge dalla delusione, ma se diventa la tua lente di lettura fissa, ti invecchia l’anima. E infatti per un certo periodo mi ero trasformato in una bestia ringhiosa. Vedevo nemici ovunque. Senza rendermi conto che quelle stesse persone che mi avevano messo sotto i piedi erano strumenti. Strumenti per il mio risveglio. Mino, il Cagnaccio, lo Smilzo, il Tarchiatello, il Cocainomane… Li avevo scelti inconsciamente come provocatori. E per questo – oggi – provo per loro un affetto agrodolce. Anche se non ci berrei più neanche una birra.


Mentre affrontavo il mio terremoto emotivo a 360°, la mia famiglia entrava in crisi. Nel frattempo, la paura di non trovare mai più una donna vera conviveva con una nuova spinta: scrivere. Avevo cominciato a scrivere articoli per un quotidiano online, e testi per un’emittente radio locale con il buon pugile Luca Margiotta e la regia di Sandro B.

E sì, nel frattempo, facevo sesso. Amplessi occasionali, storie sbilenche. E per ogni donna presso cui ho sentito un po’ di calore – nonostante le paranoie post-coito – ho provato affetto. Non è nato un Amore, ma ho il ricordo di ognuna. Ed è grazie a loro che ho sviluppato una nuova coscienza di me stesso.


E tornando all’Amore – come F. si era allontanata giorno dopo giorno, anche Mino aveva preso il largo. Nei momenti di ricaduta, quando non dormivo la notte, odiavo entrambi.
Lei, perché mi aveva svuotato casa. Lui, perché era uno sportivo ricco con una corte di deficienti attorno. Dovevo farne dei nemici per difendermi. Come quelli che, nel mezzo di una crisi, si induriscono e diventano rozzamente identitari. Ero entrato nella fase “o sei con me o contro di me”. Non ero più sottomesso, ma ero “contro”. Ero il fratello minore di Edward Norton in American History X. Incazzato, rabbioso, testosteronico. Poi, a un certo punto, quella fase è finita. E ho visto chi ero diventato: un qualunquista con la mente chiusa. Uno che, messi su due o tre mattoni di personalità, si sente autorizzato a giudicare tutti. E lì ho capito che una conoscenza parziale fa più danni della più profonda ignoranza. E mi sono vergognato. E provo ogni giorno ad aprire di nuovo lo sguardo.

Ascoltando.
Dubitando.
Provando a vedere le cose da più angolazioni possibili.

Non ci sono ancora riuscito.
Non sono ancora arrivato a quel distacco sereno, a quella leggerezza zen.
Ma ci provo.

Errore dopo errore, magari ci arrivo.
Magari a 90 anni.


Intanto, visto che sono passati cinque anni da quel cacchio di viaggio messicano, ho capito una cosa sul significato della parola rispetto. Che, innanzitutto, è rispetto di sé. Ossia, di me. Anche quando faccio figure di merda, anche quando mi accorgo di non averci capito niente o di avere paura di tutto. Il rispetto delle mie debolezze – senza autocommiserazione – coinvolge anche il rispetto degli altri. Più rispetti te stesso, meno odi la gente.


Ad esempio: Mino.
Dopo averlo rivisto nella giusta prospettiva, con pregi e difetti, non riesco più a rimproverarlo per avere certi amici di merda attorno. Cioè, lo penso lo stesso, ma come potrei dirglielo? Andare da lui a dirgli: “Oh, la gente che consideri di valore fa schifo?”, urlarglielo in faccia? Con quale diritto? Solo perché voglio aprirgli gli occhi? O perché sono convinto di avere ragione?

Non lo so.
E, più che altro, non mi riguarda più. Così come non permetterei più a nessuno di venire da me a dirmi cosa o come devo pensare. Rispetto è astenersi dal rompere i coglioni agli altri. Altrimenti sei solo un pretenzioso incazzato con se stesso. Uno “che critica un film, senza prima, prima vederlo”. Mio fratello è figlio unico, Rino Gaetano.


Eppure, nonostante l’illuminazione sull’importanza della tolleranza, devo sforzarmi ogni giorno per non cadere nella trappola di credere d’aver ragione. E questa è una cosa che i manuali della felicità new age si dimenticano sempre di dire. Dove il protagonista, dopo catastrofi e crisi, trova finalmente la ricetta per l’equilibrio karmico e da quel momento diventa un fico di Dio. Cazzate. L’equilibrio è un lavoro quotidiano, in bilico tra le sfumature che cambiano ogni giorno. E prima di arrivarci – a un minimo di saggezza – ci sono almeno cento false illuminazioni e crisi mistiche da affrontare.


Succede così: dici "basta" a una relazione tossica, ti senti libero.
Dopo tre giorni ti arriva un messaggio. O la incontri per strada.
O sei tu che ti dici: ma sì, siamo adulti, che male c’è se la rivedo?

E sei di nuovo a letto con lei. Dopo una scopata furiosa, lei ti dice che è colpa tua se sta tanto male.
E tu, zitto.

Questa è la realtà.

Vale per l’Amore, per il Lavoro, per l’Amicizia, per la Famiglia.

Credevi di aver trovato la soluzione invece no. Non vuoi risolvere il problema. Vuoi solo sedarlo. Perché risolverlo costa fatica. E soprattutto, sacrificio.


F.

Anche se ci eravamo lasciati, eravamo ancora legati da fili invisibili.

Ci siamo rivisti nell’autunno 2007. Ho preso un treno e sono andato nel modenese. Mi aspettava con un regalo: una bilancia da cucina. "Impara a pesare le parole", mi ha detto.

Poi mi ha insultato tutto il giorno. E io zitto.
Ma prima di salire sul treno per tornare a Milano, ci siamo baciati. Un lungo bacio d’addio. Eppure, la primavera dopo, eravamo ancora insieme. In lei qualcosa stava cambiando. I fianchi si erano arrotondati in mia assenza, gli occhi avevano un’altra luce. Ci siamo incontrati una sera. Lei ha vomitato in una siepe. Poi siamo finiti in un bar a bere birra e giocare a biliardo. Mi odiava abbastanza, e ci teneva a farmelo pesare.
Poi è salita a casa mia. Abbiamo fatto l’amore. Non sesso. Amore.

Ci siamo presi tutto quello che non avevamo più avuto negli ultimi tempi. Il giorno dopo non ci siamo detti “torniamo insieme”. Ci siamo detti – silenziosamente – che era tutto molto strano. E oggi? Perché ne parlo ancora?


Perché solo ultimamente ho capito una verità scomoda su me stesso: sono un tossico d’affetto.

Ciao, mi chiamo Nelson e ho un problema con l’amore. Non sono un furbo figlio di puttana che vuole solo cazzeggiare con le tipe. No. Sono uno che dall’Amore si allontana con tanta più forza proprio perché ne è attratto disumanamente. Chi ha provato, anche solo una volta, quell’estasi che è sentirsi compreso, amato, specchiato negli occhi di qualcuno, lo sa.
Io l’ho provata. E la rivoglio. Ma ho paura.
Non credo di saper sopportare il momento in cui, di nuovo, tutto si spezza. Vivo con una pistola carica puntata contro quel rischio. Mi allontano prima.

Anche per questo, dopo una serie di rapporti tutti simili – amplessi, frasi, scuse, "non è colpa tua" – mi sono reso conto: sto idealizzando l’ultimo amore solo perché non riesco ad affrontarne uno nuovo. Tengo F. come feticcio sul comodino. E così non amo più. E così non vivo.


Allora basta. Mi guardo allo specchio, mi do del coglione e butto giù le armi. Perché altrimenti tanto valeva restare incatenato a F., a Mino. Alla carriera d’avvocato. Ai rapporti da "bravo ragazzo". No. Dopo tutto quello che ho fatto, posso fare anche questo passo. Tornare a sud, come canta Capossela: "fuga dell’anima, tornare a sud, di me, come si torna sempre all’amore."


Ma proprio mentre sto per farlo, arriva lei: la mia stalker letteraria.
Mela.
Voce della coscienza femminile.

Mi scrive:

“Adesso che hai capito di essere uno alla ricerca di una relazione adulta non puoi semplicemente stare lì ad aspettare una Lei ipotetica. Primo: devi imparare a star bene da solo.
Secondo: se imposti tutto così è molto pericoloso.”


Ha ragione.
Ma cazzo, è dal 2007 che sono periodicamente solo. E l’unico vero pericolo è che mi ci abitui. Che diventi così cinico da non riuscire più a fidarmi di nessuna. E resti a scrivere puttanate rosa-noir su un blog. Giudaporco, io sono un pasticcino ripieno d’amore in attesa della Sexy Principessa.


Le rispondo:

“Sono strasicuro di essere geneticamente programmato per vivere tutte le mie qualità solo in coppia. Anche se ogni volta che sto con una donna mi pare di non sapere chi sono, e ogni volta che sto senza una donna, non so chi sono lo stesso.”


Eppure, c’è qualcosa che mi resta dentro. Un pensiero. Una speranza. Che un uomo, dopo un percorso interiore vero, possa trovare il proprio compimento accanto a una donna. Non per debolezza, ma per abbandono. Non per bisogno, ma per scelta. Un aforisma spagnolo dice: “No vengo para que cures mis heridas de niño, ya las he curado yo. Vengo para que beses mis cicatrices.”


Nella notte tra il 19 e il 20 maggio 2012, il mio letto si è messo a tremare. "Checcazzo, ’sti terremoti stanno rompendo i coglioni" ho pensato. Accendo il computer: ore 4:20. Leggo le notizie: l’epicentro è in un paese del modenese. Il paese di F. Una parte di me vola là. L’altra pensa: che ironia malata, un terremoto a casa di Foxy proprio mentre sto scrivendo la fine di questa storia. Le scrivo un messaggio. Mi risponde: erano tutti fuori, per assistere all’ennesima operazione della madre. "Mi sembra di sognare", mi scrive. Un brutto sogno, molto reale. E io? Sento un misto di dolore e di sollievo. Perché ora non posso fare più niente per lei. E sento che lei non vuole niente da me. Se non la lascio andare, non vivrò altro.


E quindi? Scrivere questa storia. Fare rivivere i personaggi. Ammettere nevrosi, errori. Condividerla. Gettare tutto nel calderone dell’inconscio collettivo, nell’epoca del web, dello scambio istantaneo.

The Age of Aquarius.

Non essere più il protagonista.
Ma lo spettatore.
Seduto in sala. Buio. Relax.


Anche se è normale che poi mi aspetti altro dalla vita. Nutro speranze su me stesso. Perché, se non lo faccio io, chi cazzo lo fa?

E tra una crisi e l’altra scrivo. Scrivo come cura. Egocentrico? No. È solo che finché non mi ripulisco, il mio sguardo sulle cose resta parziale. E preferisco scrivere cazzate su di me che spargere merda sul mondo.


Oggi, cammino all’indietro.
Guardo un passato chiarificato, ma il futuro non lo vedo ancora. E allora Amy Winehouse. Scelgo lei. Nel video di Back to Black. Lo riguardo. Invito anche voi a farlo. Ora, mentre canta: “Ci siamo detti addio solo a parole. Io sono morta un centinaio di volte.” E ogni volta che la inquadrano mentre getta la terra nella buca, mi chiedo: che cosa ho seppellito davvero? Quanto di me ho nascosto sottoterra? Forse troppo. Forse qualcosa che dovrei riesumare. Riportare alla luce. Ma poi penso una cosa. Lei è morta.
Io no.

Io sono ancora vivo.
E posso ancora provare a cambiare molte cose.


FINE





"Back to black": http://youtu.be/TJAfLE39ZZ8

Post Scriptum:
La piramide di Chichen Itza è stata eletta nuova meraviglia del Mondo moderno. La scelta ufficiale delle Sette Meraviglie del Mondo è avvenuta a Lisbona il 7 Luglio 2007: specificamente per la presenza del numero 7 (07/07/07). A livello temporale la premiazione è stata fatta subito dopo il mio ritorno a Milano, quindi mentre ero là in Mexico non sapevo ancora che Chichen-Itza fosse tanto meravigliosa. Ma anche se ho preferito ambientare il racconto Mexicano interamente nel mese di Luglio, volevo dire che a me quella cazzo di piramide è piaciuta anche prima della premiazione mondiale.