sabato 12 maggio 2012

Down in Mexico, part. III°


"L’amore, nelle diverse forme di attaccamento e nelle manifestazioni più positive e più sane, rappresenta un'importante capacità e un naturale bisogno di ogni essere umano. (...) Quando un rapporto affettivo diventa “dolorosa ossessione” l’amore può trasformarsi in un’abitudine a soffrire fino a divenire una vera e propria “dipendenza affettiva”, un disagio psicologico che è in grado di vivere nascosto nell’ombra anche per l’intera vita di una persona ponendosi tuttavia come la radice di un costante dolore e alimentando spesso altre gravi problematiche psicologiche, fisiche e relazionali", cit. "Love Addiction"



Quando sento il mio tormento, Di vendetta il cor favella, Ma se guardo il suo cimento, Palpitando il cor mi va. 

("Don Giovanni" Mozart, Donna Elvira: atto II, scena XIV)




  


3.


La mattina dopo la cena con la Ballerina e l’amica messicana, lo Smilzo ci incastra già a colazione. Vuole venderci un’altra gita per turisti, con tanto di brochure, sorrisi finti e trappole. Stavolta lo fermo io, Mino. Mi impunto: “Ne parliamo dopo. Basta farsi spennare da ‘sti poveracci a mie spese.” Ma lui insiste. Come se non volesse perderci di vista. Alla fine ci trascina – lui e il Cagnaccio – su un’altra spiaggia, dove altri amici italiani hanno una posada.

Ancora una volta qualcuno mi allontana dalle ragazze argentine. Il mio miraggio sessuale. Però, per una volta, il posto merita. Attraversiamo un boschetto di palme, ci troviamo davanti un grande gazebo di legno. Amache, una tavolata lunga, il mare dei Caraibi sullo sfondo. Per la seconda volta da quando sono qui, resto a bocca aperta. Sembra la copertina di una rivista. Solo che è vera. Anche il cielo collabora: più azzurro, meno nuvole.


Ci presentano altri italiani espatriati.
Hanno tutti lo sguardo di chi è stato tossico (o lo è ancora), ma almeno adesso pippano in infradito.
Le mogli sono versioni tropicali delle zarre di provincia.
Tutti pendono dalle labbra di Mino. 

Io? Invisibile. E, a un certo punto, non me ne frega più niente.

Mentre mangio una scodella di gamberetti con pomodorini, uno dei ragazzi – milanese, vive qui da anni – racconta di quando rischiava di impazzire in Italia.
A vederlo, non è che adesso sia proprio a posto. Però è divertente. Era anche lui uno sportivo. Poi un infortunio, carriera finita. Ora gestisce un bar con due italiani e un messicano.


“Durante l’ultimo uragano tutti chiusi in casa. Io e il mio socio? In motorino, a farci un giro.”

“E com’era?”
“Eravamo nel centro dell’uragano, e tutto era… fermo. L’acqua faceva solo bolle. Il cielo giallo, l’aria bloccata.”


Sembrava inventato. Ma mi divertiva.
Quel Matto, nervi scoperti, voce simpatica. Mi distrasse.
Dietro le sue spalle: mare chiaro, palme, legno, silenzio.
E per un attimo, anche la mia gola smetteva di bruciare.
Magari, in quel preciso momento, anche io ero nel centro del mio uragano personale.
Tutto fermo, cristallizzato.

Poi lo Smilzo ci riprova. Altro giro, altra proposta, altra caparra. Mino sta per accettare ma il Matto lo interrompe e cambia discorso. Parla, scherza, ci tira dentro tutti. Benedetto Matto. Ci porta in acqua. Mentre nuotiamo, mi sussurra: “Non stare dietro a quei due. Oggi pomeriggio vi porto io da un’altra parte.”


E così, nel giro di qualche ora, io, Mino e il Matto siamo su un battello diretto all’Isla de las Mujeres.


“Lo Smilzo e il Cagnaccio sono due infami,” dice lui.
“Ve lo dico io: vi fottono. Vi fanno pagare come se foste americani.”

“L’avevo intuito” dico.
“Adesso vi porto in un posto spettacolare!”


Scendiamo e attraversiamo un mercato fatto di baracche colorate. Affittiamo una macchinetta da golf come turisti senza dignità e corriamo sulla strada asfaltata dell’isola, ridendo come bambini. Prima guida Mino. Occhiali a goccia, volto al sole, come se fosse il protagonista di un videoclip. 


Parcheggiamo al porto, saliamo su una barca. Il capitano si fa chiamare El Diablecito.

Appena al largo, ci allunga pinne e maschere.


“Seguite la corrente. Ci rivediamo dall’altra parte.”

Il Matto si tuffa. Ci fa segno di seguirlo.


E poi, l’ultima sorpresa.
Mi ritrovo immerso in un’acqua trasparente e azzurra. Un mondo alieno sotto i piedi. Pesci, coralli, anemoni che fluttuano. Una tavolozza psichedelica, in movimento lento. Mi lascio trascinare dalla corrente, galleggiando tra bolle e silenzio. Respiro a ritmo, come se tutto fosse musica. E poi li vedo: i barracuda. 

Fermi. Immobili.
Lunghi come lame.
Uno in particolare: enorme, denti affilati, occhi freddi.
Mi fissa. Non si muove.
Solo la coda.
Un assassino perfetto.
Non verrà da me, ma lo temo.
E lo rispetto.


Do un colpo di pinne, entro in un corridoio d’acqua. Mi circondano centinaia di pesci gialli minuscoli, scaglie di luce. E ancora una volta penso a F.


Sott’acqua. Circondato da pesci colorati, tra le rocce dell’Isla de las Mujeres. E nel cuore F. che non so se mi aspetta per accoltellarmi o abbracciarmi.


Il barracuda mi fissa.
Non mi avrai, bastardo.
Lo tengo d’occhio mentre pinneggio rasente agli scogli. Pesci “pappagallo” brucano sul fondale. Mi distraggo e mi graffio il braccio su un corallo.

Corallo.
Cos’è un corallo?
Una pietra? No. Vive, cresce, muore.
Una pianta? Nemmeno, perché sembra roccia.
È velenoso? Neanche. Ma se ti ci tagli, fa un male cane.
È prezioso? Solo se lo lavori.
È il cognome di mia nonna. E ora è il mio. Corallo.


Seguiamo la corrente fino alla barca del Diablecito. Il Matto ci fa salire tutto contento.


“Uno spettacolo, eh?”
“Bellissimo” dice Mino.
“Mmh” mugolo io. Il dolore alla gola è tornato. Ho la trachea in fiamme. Forse è un sintomo psicosomatico: non ho più voglia di dire niente. Basta parole. Meglio tacere.


Tornati a riva, saliamo sulla golf cart. Guido io, di nuovo verso il molo, cercando di non pensare. Il Matto chiacchiera con Mino.

“Com’è Milano?”
“Ormai vivo in Sicilia, ma quando torno sto bene. Famiglia, amici…”
“Zio, io adesso non potrei più. Infradito tutto l’anno! Quando stavo a Milano però non era male. C’era la Pergola?”


La Pergola. Centro sociale nel quartiere Isola. Reggae, jazz, ganja, skate. L’hanno chiusa nel 2009.


“Boh” dice Mino, che certi posti non li ha mai frequentati.
“Sì,” riesco a dire io.


Il Matto parte con un aneddoto:


“Avevo lo skateboard. Io e un mio amico volevamo metterci un simbolo sotto, tipo firma. Lui si fa la falce e martello. Io dico: ‘devo farmi un simbolo anch’io, fico…’”

“E cosa ti sei fatto?” chiede Mino.
“Una svastica.”
“Cosa?”
“Sì, tipo nazista. Ma non sapevo nemmeno cos’era. Boh, sembrava fico.”


Lui e l’amico arrivano in Pergola per comprare un po’ di ganja. Qualcuno vede la svastica sotto lo skate. Scoppia il pandemonio.


“Ci volevano linciare. Bottiglie, urla, punkabbestia impazziti”
“Un genio” commento mentalmente.


Tornati all’hotel, lo Smilzo e il Cagnaccio ci ignorano. Ma si vede che rosicano: abbiamo risparmiato e ci siamo divertiti senza di loro. Godo.

Verso sera beviamo una birra sotto il portico.
Sono stanco. La gola peggiora.
Dovrei prendere qualcosa, ma rimando.

Mino mi guarda come si guarda uno sfigato. Uno che si ammala in vacanza. Vorrei spiegargli che dietro questa gola distrutta c’è un mondo, ma tanto non capirebbe.
Mi fumo una canna e vado a dormire.


Il giorno dopo, niente miglioramenti. A gesti spiego a Mino che vado in cerca di una farmacia, da solo. Esco con la mia Yashica analogica. Reflex a rullino.  Cammino tra i colori di Playa cercando la croce verde. La farmacia. Il farmacista mi dà uno sciroppo blando. Scatto qualche foto, torno in hotel. Dormo.

Ho praticamente perso le speranze con le ragazze argentine. Inizio a pensare che gli ultimi giorni qui mi serviranno solo a due cose:

1. Capire se posso ancora parlare con Mino.
2. Mettere ordine con F.


L’ho lasciata con una mail. Una vigliaccata. Ma ora torno, la guardo in faccia. Dobbiamo parlare. E comunque ha ancora le chiavi di casa mia.


Mino torna in camera al tramonto. Mi guarda mentre leggo un libro sul letto. Mi fissa. Come faceva il barracuda. Sento che mi sta giudicando. Allora i miei buoni propositi svaniscono. Anche il mal di gola diventa una difesa. Sto male, ok? Vuoi divertirti? Vai col Cagnaccio. Come fai sempre. A Milano chiami “Nelson, prendiamo un caffè” e poi vai a ballare con la tua combriccola. E se io mi aggrego, sembra un miracolo.


Sesto giorno.
Sciroppi, ganja, sonno. La sera mi sposto su un divano di vimini e guardo un film americano. Mino se ne va in giro. Ma dopo un po’ torna.


“Ma come stai?”
“Eh”
“Ti ammali in vacanza, sei un’ameba!”
“Eh”
“Non ti vergogni?”
“No”
“Cosa guardi?”
“Mmh”
“Vabbè”


Si siede anche lui. Guardiamo Daredevil in lingua originale. Poi ci addormentiamo. Il custode spegne la tv e ci manda a dormire. Mentre rientriamo, Mino dice: “Però, anche una sera tranquilla, ogni tanto, ci sta”. Lui è uno che ha paura di rilassarsi. Crede che la vacanza sia una gara. Essere stanco è da falliti. Io invece sto male, F. è un fantasma, le argentine un sogno infranto, l’avvocatura mi fa schifo, la gente mi è estranea. Però in fatto di psicosi e capacità di ammetterlo, sono un drago.


Settimo giorno.
Mino affitta un’auto. Si va a Tulum.
Stavolta niente tour operator. Solo noi due.
Una cosa semplice, che mi fa bene.

Mino guida, io seguo la mappa.
Il Messico scorre fuori dal finestrino.
Tutto enorme. Tutto vivo.

Arriviamo al sito archeologico.
Sopra il mare, “El Castillo”.
Non è Chichen-Itzá, ma è comunque suggestivo.

“Guarda ‘sti Maya…”
“Eh già.”
“Vista mare. Sacrifici e tuffi.”
“Sì, ganja maya, sgozzamenti e poi splash.”

Ridiamo. Come alle elementari.
Senza maschere.
Intorno a noi, iguane. Occhi da saggi.
Ci guardano, poi spariscono.

“Secondo te se la mangiano, la ganja maya?”
“Sicuro. Hai visto che occhi?”

Poi, mentre ci avviamo alla spiaggia…

“Oh, ma non sono le due argentine quelle là?”
“Cazzo sì!”

La mia gola guarisce all’istante.

Le salutiamo, chiacchieriamo, ci ritroviamo tutti e quattro in macchina.
Andiamo in una spiaggia vicina.

Sabbia bianca. Mare vivo. Culetti tondi.
Sorrido a Mino.
Il miracolo si è compiuto.

Forse era destino. Forse è giusto che alla fine succeda.
Ho desiderato, agito, sperato.
Ora è il mio momento.

Ma poi stendono i teli un po’ lontani dai nostri. Sembrano distanti. Poco coinvolte. E dal sentiero arriva un gruppo. Due surferi si avvicinano. In pochi secondi, baciano le due ragazze.

La mia gola torna a serrarsi.


“Andiamo a fare un bagno?”
“Sì.”


Ci tuffiamo. Le onde ci sballottano. Nuotiamo, ridiamo.


“Si sono fatte accompagnare dai fidanzati”
“Me ne sono accorto.”
“Quale ti piaceva?”
“Alexandra, quella col viso da porca.”
“Maria è carina.”
“Sì, molto.”


Quando torniamo sui teli, loro si avvicinano. Alexandra mi sussurra qualcosa all’orecchio. Non capisco. Mi bacia sulla guancia. Maria fa lo stesso con Mino. Poi se ne vanno. Per sempre.


“Porca miseria”
“Sì, lo so”


Beviamo una birra al chiringuito.


“Mino, non ti manca G.?”
“Sì. Anche se mi ha fregato con i soldi. L’ho amata.”

“E perché vi siete lasciati?”
“Perché non riuscivo più a guardare il mare con lei. Sai, quelle domande stupide, tipo ‘perché il cielo è azzurro?’ Se non puoi farle, manca qualcosa.”

“Capisco. Io con F. volevo cambiare vita. Lei no. Quando cercavo di spiegarle che stavo male, lei si chiudeva. Diceva che erano paranoie. Non voleva ascoltare.”

“Ti manca?”
“Sott’acqua, tra i barracuda, pensavo solo a lei.”


La verità è che volevo disintossicarmi. Ma con F. era peggio: lei era parte di me. Ho fatto il mio percorso. Psicoanalisi, letture, musica, film, boxe. Mi sono detto: “Basta. Taglia i rami secchi.” Ma lei non voleva fare lo stesso. Io cercavo di guarire, lei no. Alla fine ho pensato: “Se è davvero la tua donna, perché soffri così?”, “È amore o dipendenza?”. Stava diventando dipendenza.


Ora che le argentine sono svanite, la gola esplode, la febbre sale, e la vita vera mi aspetta a Milano, mi sento sconfitto. Forse tornerò a casa, chiederò scusa a tutti. Fingerò, mi adatterò, farò l’avvocato. Mi accontenterò. Basta che la Vita, almeno, non mi deluda più.


fine terza parte

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