"La camicia hawaiana"
di
Nelson Corallo*
"La camicia hawaiana"
di
Nelson Corallo*
Tu di solito non indossi camicie con fantasie floreali, tipo quelle hawaiane.
Stamattina lo hai fatto.
Ora ti godi una regata di barche a vela mentre bevi succo d'arancia ghiacciato, seduto al tavolo di un albergo di lusso.
Sei soddisfatto.
Stanotte hai penetrato ripetutamente una bionda dalle gambe chilometriche, occhi verdi, labbra rosse, soldi facili. Non ti dispiace averla dovuta pagare.
Fai un sorso, osservi le vele che scivolano nel sole e ti dici che la vita ha un prezzo. E tu puoi pagarlo, con carta oro.
Tu, stamattina, hai ricevuto un invito.
Te lo ha consegnato il cameriere. Scritto a mano su carta intestata, lettere platinate.
E perdi ancora qualche minuto prima di presentarti a bordo piscina, dove una coppia di sposi inglesi aspetta te. Li hai conosciuti al ristorante prima di andare a puntare qualche mucchietto di fiches sul tavolo verde, mentre una pallina - una perla magica - rincorreva numeri rossi e neri.
Marito e moglie stavano seduti accanto a te. Te li ricordi bene, soprattutto lei, perché pareva invitarti con gli occhi, gli stessi sul cui fondo hai scorto una sensualità nascosta, stemperata nell'ovale del viso anglosassone. Ti sei chiesto se fossero annoiati in cerca di un terzo, per fare giochetti, per abbattere la routine. Così hai trovato un pretesto educato per presentarti e poi concludere la serata chiacchierando, amabilmente.
La coppia si è rivelata essere ricca, del tuo ambiente, proprietaria di barca a vela all'ormeggio poco distante dalla costa. Ed è proprio a bordo della tre alberi che vi recherete, dopo il brunch, per trascorrere un lussuoso pomeriggio assieme.
È per questo che hai indossato una camicia hawaiana.
Ma solo perché te lo ha chiesto lei, per iscritto, sull'invito che conservi in una tasca del pantalone leggero.
Sulla superficie del mare bagliori accecanti raggiungono i tuoi occhi e le scie delle barche disegnano arabeschi spumosi nelle manovre veloci.
Gabbiani impazziti solcano bassi il cielo azzurro, spiegando ali stilizzate all'orizzonte.
Tu non termini di bere il succo d'arancia.
Un raggio di sole, adesso, è penetrato di nascosto da uno spazio aperto nell'ombrellone sul tuo tavolino.
Ti alzi.
Percorri la terrazza panoramica dove americani gonfi, visi scottati, stringono occhi grigi sullo schermo immaginario che inquadra cielo, mare e barche impegnate nelle manovre. Loro non fanno caso alla tua camicia hawaiana ma tu senti il disagio di chi indossa qualcosa che non avrebbe voluto esistesse. Come una colpa.
Scendi le scale che ti conducono al lussureggiante giardino.
Alte palme dal fusto a scaglie dominano lo spazio.
La superficie azzurra della piscina è increspata, attempate signore annaspano con grazia.
Individui la coppia.
Lei indossa una gonna bianca ed una polo rosa. Lui ha l'aria da inglese in vacanza. Ti fanno un cenno, ti avvicini, ti siedi con loro.
Tagli la tua fetta di melone e sorridi alle cortesi attenzioni dei tuoi ospiti.
Lei, mentre lui parla al cameriere, ti sussurra d'aver apprezzato molto il gesto di cortesia nell'indossare la camicia hawaiana.
Il brunch prosegue, si alternano portate e credenziali dinastiche.
Tu provieni da una casata d'industriali tedeschi e nei sei orgoglioso rampollo.
La coppia anglosassone vanta conoscenze nell'ambito commerciale, frequenta luoghi di villeggiatura in cui probabilmente non vi siete incontrati per un semplice scherzo del destino. Eppure non li identifichi con precisione nel panorama degli abbienti di cui tu fai parte. Ma che importa ora? Lui non desidera affatto esserti sgradevole, si sforza nel dissimulare la riservatezza inglese che lo porterebbe ad annuire con sufficienza alle tue parole. Ad annuire ci pensa lei, ma lo fa con grazia, nell'azzurro degli occhi che brillano al di sopra delle gote bianche punteggiate di efelidi.
Tu pensi che lei ti voglia.
Nonostante qualche formale ed educata protesta da parte tua, loro pagano il conto e ti scortano all'esterno dell'albergo, per raggiungere il molo.
Durante la passeggiata sul lungo mare lei ti chiede il braccio e tu glielo concedi con garbo.
Lui parla al cellulare, con il fastidio di chi vi è costretto.
Camminate sotto il sole.
Vedi il riflesso di te stesso nei vetri oscurati di una lussuosa automobile che scorre lenta al tuo fianco. Osservi la camicia hawaiana disegnare fiori sulle superfici lucide della vettura dissolvendosi al suo passaggio.
Lei ti stringe il braccio e senti il sangue scaldarsi.
Al molo vi aspetta il solerte addetto al gommone di servizio, che vi porterà a bordo della tre alberi ormeggiata.
I gabbiani solcano il cielo, a squadre, lanciando grida acute verso il mare.
La regata prenderà nuovamente inizio nel pomeriggio.
Il porto si allontana nella spuma del natante che fa rotta verso la barca lasciata all'ancora fuori della portata dei curiosi.
Tu pregusti il menàge a trois che hai sempre desiderato, con lei che si concede, mentre il marito sorseggia sherry.
A bordo non c'è nessuno, tranne te e la giovane coppia.
Lui ti parla della strumentazione di bordo e tu annuisci cercando gli occhi di lei.
La donna scende in cabina, ti invita a trovare un pretesto per seguirla ma lui ti trattiene ancora, invitandoti a bere champagne sul ponte. Ti porge un calice e tu lo alzi con deferente malizia.
Chiedi gentilmente di poterti servire della toilette e lui ti invita a scendere verso le cabine.
Muovi passi lenti e sorridi all'immagine di te stesso riflesso in uno specchio, con addosso quella stupida camicia hawaiana. Poco importa, tra poco te la toglierai di dosso.
Esci dal bagno, dopo aver controllato l'esattezza della tua persona.
Mentre percorri lo stretto corridoio, avverti il rollio della barca e ti reggi al corrimano di legno pregiato.
Intravedi in una cabina le gambe di lei, seduta sul letto, che ti aspetta.
Ti appoggi allo stipite della porta e la penombra ti protegge.
Dall'oblò entrano i riflessi del mare blu mentre accarezza lo scafo della barca ondulante.
Senti una mano invisibile e leggera provocarti brividi. La tua testa riceve immagini e suoni attutiti.
Sorridi.
Lei ti fa cenno d'avvicinarti.
Muovi un passo e ti pare che il suolo si sposti di lato. Barcolli, pensi al movimento traditore del mare e guardi gli occhi di lei, azzurri, che ti invitano.
Ancora un passo e l'avrai.
Il torpore adesso si trasforma, ti cinge le tempie con una benda di raso nero. Le immagini scolorano, la penombra avanza. Dall'oblò il blu del mare si colora d'inchiostro.
Tu svieni.
Ti risvegli.
Hai la bocca secca e un senso di appannamento che ti porta verso il fondo della tua stessa coscienza. Lì c'è un segreto che nessuno dovrà mai conoscere.
Qualcuno ti tiene la nuca e vuole che tu apra gli occhi, adesso.
Compi uno sforzo ma hai la testa pesante.
Ricadi sul mento.
Senti di non avere più addosso la camicia hawaiana.
Il tuo petto liscio, nudo.
Le tue mani, legate dietro la schiena.
Lei ti guarda. Ma quel velo di malizia che fino a prima aveva tenuto nascosto, adesso avvampa. Lei ti fissa con una malizia tutta nuova, che non ha nulla d'erotico.
Avverti rumori provenire dal ponte, proprio sopra la tua testa pesante.
La barca sta prendendo il largo.
Ti chiedi il perché della situazione.
Non fai in tempo a darti una risposta, ti distrai nel vedere che la tua stupida camicia a fiori è piegata meticolosamente sul letto.
Volti lo sguardo, in cerca di lei, per chiederle cosa ti sia accaduto ma un dolore tagliente ti squarcia il petto.
La donna ti colpisce ripetutamente con un bastone appuntito.
Le ferite si aprono con facilità.
Dal petto i colpi salgono al volto.
Tu sputi sangue.
Gocce dense di plasma ricadono con schiocchi secchi su un'incerata di plastica stesa attorno a te.
Lei continua a colpirti e quegli occhi poco prima invitanti adesso brillano demoniaci nella penombra.
Sadica ferocia.
Il dolore che provi è una sorpresa di fanciullo. Uno scherzo crudele subìto per sbaglio. La delusione ti sgorga dalle palpebre e si mescola alla materia cerebrale che ti fuoriesce dal cranio, colando sulla tua fronte.
Il potente anestetico che hai bevuto con lo champagne termina di colpo il suo effetto.
Tu senti il dolore e l'orrore dei tuoi ultimi momenti di vita.
Sollevi la testa.
Ricevi colpi.
In un lampo, in un istante, in un bagliore, ripensi a quel segreto che giace dentro di te.
Nel corridoio appare lui.
L'uomo ha gli zigomi tirati allo spasimo mentre carica un fucile da sub con un arpione, e te lo punta contro.
Lei respira forte, per riprendersi dallo sforzo nel maciullarti il cranio.
Lui trema, lei lo sprona, lo graffia, gli ordina di premere il grilletto.
Non sei tu, vorresti gridare, non volevi!
E’ il tuo segreto che si dibatte nel petto.
Vedi il bagliore del tridente inserito nella canna del fucile.
Istantaneamente senti che il tuo petto scoppia.
Spalanchi occhi e bocca in una smorfia di stupore acuto.
Il tuo cuore esplode.
E tu sei morto.
Io di solito non indosso camicie con fantasie floreali, tipo quelle hawaiane.
Stamattina ho fatto uno strappo alla regola.
Ma c'è una ragione a tutto questo.
Adesso mi godo l'orizzonte sgombro mentre bevo succo d'arancia, seduto al tavolo di un albergo di lusso.
Sono soddisfatto per le ore trascorse con la bionda dalle gambe chilometriche, occhi verdi e labbra rosse, che mi ha tenuto compagnia - a caro prezzo - stanotte. Non sono io a pagare, c'è chi mi finanzia.
Il problema è un altro.
Tre giorni fa, il giovane tedesco che tenevo sott'occhio per conto della mia Agenzia non è più sceso da una tre alberi su cui era salpato nella tarda mattinata.
E questo mi provoca un certo fastidio.
I miei finanziatori pretendono aggiornamenti continui sulle condizioni del rampollo di famiglia teutonica, il cui ricco padre, adesso, è alquanto contrariato.
L'ultima volta che l'ho visto, personalmente, credevo stesse per godersela con una coppietta di inglesi in preda alle voglie di un menage a trois.
Il fatto è che la coppietta è tornata a cenare all'albergo ma del tedesco nemmeno l'ombra.
Forse, mi son detto, ha deciso di stabilirsi sulla barca a vela per continuare a fare il porco con la signora, senza dare nell'occhio. Però, durante le mie perlustrazioni, il tale non è mai apparso né sulla barca né altrove.
Tranne stamattina, in effetti. Quando si è fatto vivo su una spiaggetta poco distante dalla città.
Lo hanno ritrovato squartato e piuttosto morto.
Non che per me sia un grande lutto, ma devo risponderne all'Agenzia.
La notizia è passata sotto silenzio, nel senso che a ritrovarlo è stata la polizia, così è riuscita ad arginare i giornalisti. Ma manca poco prima che lo scoop sia noto a tutti. E quando dico tutti, intendo tutta la ricca comunità industriale europea che non aspetta altro per far crollare il mercato finanziario.
Finisco il succo d'arancia, prima che si scaldi.
Un raggio di sole è spuntato all'improvviso da un taglio nell'ombrellone che mi ha protetto fino ad ora nell'ombra.
Non so perché ma adesso avrei un urgente e malsano bisogno di ascoltare qualcosa di Frank Zappa. Peccato, non mi è possibile.
Ieri sera, come al solito, ho fatto un paio di puntate al casinò. Ho perso una cifra di tutto rispetto alla roulette e ho passato un paio di banconote a chi di dovere. Dopo poco, grazie al potere persuasivo del cash, mi è giunto un invito a bordo piscina, per il giorno seguente. Così oggi sarò gradito ospite di una coppietta anglosassone che dovrà darmi qualche spiegazione, con garbo e gentilezza, s’intende.
Con l'invito mi è giunta anche una richiesta sgradevole, quella di indossare una camicia hawaiana.
Ho alzato la cornetta e ho ordinato una camicia a fantasie floreali al consierge dell'hotel. Metta in conto, l'Agenzia penserà a tutto.
Il fattorino me l’ha portata correndo, gli ho lasciato una miserabile mancia.
Certo la vita è davvero strana, ho detto all'immagine di me stesso riflesso nello specchio del bagno, indossando la ridicola camicia mentre la bionda si rivestiva in camera da letto, ghermendo la sua strasudata paga.
Adesso è il momento di conoscere personalmente i miei ospiti.
Mi alzo, scendo le scale.
Americani dagli sguardi feroci, gonfi di cibo, fumano sigari. Vecchie troie annaspano nella piscina e la mia vita è un rebus che non riesco proprio a risolvere. Ma dopo anni trascorsi a farmi domande aspettando risposte che non sono mai giunte a destinazione, ho preso una certa abitudine a stare così, sospeso, al servizio dell'Agenzia.
Ho smesso di occuparmi dei miei giorni. Ho cominciato a pensare a quelli degli altri, forse per trovarci un senso. Che – però - non c'è.
Il mio cellulare vibra, garbato.
L'Agenzia mi passa un paio di informazioni, quelle che stavo aspettando.
Io sorrido, perché peggio non poteva essere.
Ma io lavoro lo stesso, anche ora che sfoggio un sorriso cordiale assieme ad una orribile camicia hawaiana e mi avvicino al tavolo degli inglesi.
Se lei appare bella, eterea, fastidiosamente corretta, lui è più bianco di quanto un anglosassone dovrebbe essere.
Ma che diamine, mi dico, sfoggiando il mio impeccabile english mentre mi presento ai signori, bisogna restare tranquilli. In fondo viviamo nel lusso, no?
Ed ho la certezza che il rampollo tedesco fosse in loro compagnia, fosse salito sulla loro barca e non ne fosse più sceso. Ma, certo, non gliene faccio menzione. Sarebbe fuori luogo adesso.
Con la scusa d'essere un mediatore d'affari parlo di alcuni progetti commerciali, domando perdono per la mia sfacciataggine nell'essermi permesso di chiedere udienza. Ed il biondo mi deve ascoltare, perché deve recitare la parte di chi non ha nessun problema, nessun omicidio pendente a suo carico. Lei intanto mi osserva ed io - giuro sulla mia preziosa testa - sul fondo di quegli occhi vedo più malizia di quanta ne ho scorta in tante professioniste del sesso.
Gabbiani a squadriglie lanciano urla tuffandosi rapidi tra le onde.
Sarà per via della camicia hawaiana che indosso con disinvoltura, o forse perché distrattamente tiro in mezzo il nome della famiglia del cadavere tedesco, ma quelli mi invitano a seguirli sulla barca lasciata all'ormeggio fuori dal porto, quel pomeriggio stesso.
Ed io accetto, cordiale.
Ripercorro la strada che il tedesco ha fatto per andare a morire.
Camminiamo insieme, sotto il sole, fino a raggiungere il molo dove un gommone ci aspetta.
Penso alle coincidenze della vita. Poi mi dico che non esiste alcuna coincidenza, considerando che mi sto impegnando parecchio nel mettere in scena tutta questa pantomima degna del peggiore Tenente Colombo. Ma i miei ospiti non conoscono i machiavellici piani di cui sono unico custode.
Saliamo a bordo.
Chiedo il perché dell'assenza del personale nautico. Il biondo mi dice che gradisce la solitudine. Certo, rispondo io.
Mentre lui mi versa una coppa di champagne, lei scende verso le cabine e mi invita a seguirla. Con un segno impercettibile del sopracciglio le lascio intendere che tra poco sarò da lei.
Lui parla evitando il mio sguardo. Io d'altra parte non glielo faccio pesare, anzi, lo imito e anch'io guardo altrove, verso il mare.
Penso al mio lavoro, all'Agenzia, al ricco padre del tedesco. Penso a quei desideri, sogni, speranze che in passato avevo custodito da qualche parte e di cui ho perso traccia. Penso che dovrei prendermi una vacanza.
L'inglese parla, non lo ascolto.
Impiego per lui una piccolissima porzione del mio cervello, utile a non uscire dal personaggio.
Anzi, se non sbaglio è trascorso un tempo sufficiente per cominciare a interpretare la mia parte.
Mi dico che, sì, è giunto il momento.
Chiedo di poter utilizzare la toilette, il biondo mi indica la scaletta che porta sottocoperta.
Conto i passi mentre scendo e l'ombra mi accoglie.
Nel bagno mi sciacquo mani e volto. Mi osservo allo specchio. Questa camicia hawaiana mi fa vomitare. Eppure le dedico un sorriso.
Esco, percorro lo stretto corridoio.
Lei mi aspetta, seduta sul letto.
Mi appoggio allo stipite della porta, taccio.
Lei allarga di quel poco le cosce, quel poco che mi basta per sentire un brivido lungo la schiena.
Dall'oblò giungono ombre azzurrine, che scivolano sulle lenzuola.
Entro nella cabina.
Lei pare avere un dubbio mentre mi accoglie. Forse si aspettava meno brutalità da parte mia. Il calcio in faccia che le ho appena tirato l'ha gettata sul pavimento ricoperto di moquette.
Adesso il marito, dopo aver sentito il tonfo, crede sia io quello svenuto al suolo. Ma si sbaglia, di grosso.
Prendo la donna e la sbatto su una sedia prima che riprenda i sensi. Mi guardo attorno. La signora aveva già preparato le corde per legarmi. Le prendo io, stavolta.
Intanto il biondo apre alcuni armadietti sul ponte, in cerca di qualcosa.
Lego la donna, stretta ad una sedia, buona buona. Dal naso le cola il suo stesso sangue, peccato, la polo rosa pallido le si sta macchiando tutta.
La barca oscilla, salpa l'ancora, destinazione mare aperto.
Quando il marito entra nella cabina portando con se' un telo di plastica quasi sviene per la bella sorpresa che gli ho apparecchiato. Ma non gli lascio il tempo per riflettere e dispiacersi perché l'anestetico nel mio champagne non ha dato alcun effetto. Il contenuto del bicchiere l'ho svuotato in mare, disperso nel salmastro, terribile, mare che adesso ci culla sereno.
Un colpo in testa anche per lui, che crolla al suolo.
Mi procuro un'altra sedia.
Lego marito e moglie, stretti stretti, uno accanto all'altra, in salute e in malattia, finché morte non vi separi.
Poi aspetto, seduto.
Finalmente mi accendo una sigaretta. Quasi mi dispiace riempire di fumo questa bella cabina di lusso.
Mugolano entrambi prima di riprendere i sensi.
Io li aspetto, sorrido cordiale. Eccoli. Fissano i loro occhietti azzurri nei miei, che invece li ho verdi, scuri, cattivi.
Mi alzo, faccio due passi verso i miei ospiti.
Sorrido ancora, poi spengo il mozzicone nella guancia del marito che urla parole poco carine e poco english nei miei riguardi. Ma io non mi offendo, lo capisco, sono stato rude.
Annuncio al signore di essere intenzionato a fumarne un'altra di sigaretta, ma stavolta potrei spegnerla negli occhi della moglie, se non risponde a quanto sto per domandargli.
Dice di non aver nulla da dire.
Non voglio passare per nazista, non voglio usare una sigaretta come mezzo di tortura. Ma che posso fare? Me ne accendo un'altra, faccio due boccate e la avvicino agli occhi di lei, mentre le tengo le palpebre ben aperte. Quella urla, si dimena, perde il controllo. Che facciamo? Continuo?
Cosa vuole sapere, chiede lui.
Bravo, così va bene, davvero.
Mi dica perché avete narcotizzato, squarciato, ucciso, gettato in mare il cadavere del ragazzo tedesco. Tutto qui, ditemelo e me ne vado.
No, no, no, prova a negare il tizio.
No, no, no, non ci credo, dico io.
E faccio un altro paio di boccate dalla sigaretta, per arroventarla ben bene.
Stavolta è lei a parlare.
La creatura delicata, d'alto lignaggio, piange, sbava, il sangue le cola in bocca. Ha i denti tutti rossi. Con un fazzoletto le ripulisco il bel musino.
Racconta.
Mi narra di quando avevano una figlioletta di soli tre anni ed erano in vacanza tutti e tre assieme in Africa. E mi narra di quando un figlio di puttana tedesco, ricco, ubriaco, con addosso una camicia hawaiana, aveva investito la loro bambina, spappolandole il cranio un anno fa.
Me ne dispiaccio. Davvero. Scuoto la testa.
Mi dispiace, signora.
Intuisco il loro dolore, lo stesso che li ha portati ad attuare lo stupido piano di vendetta personale.
Al ricordo della morte della figlia entrambi soffrono, si abbandonano sulle sedie, inermi.
Bravi.
Ma la domanda è: perché avete narcotizzato, squarciato, ucciso e gettato in mare il cadavere del ragazzo tedesco?
Perché lui doveva essere punito! Perché la sua famiglia lo aveva liberato! Perché doveva morire!
Posso darvi anche ragione, signori, ma il fatto è che...
Mi dispiace davvero, ma devo dirglielo.
L’Agenzia, questa mattina, mi ha ragguagliato su tutta la vicenda della morte della bimba, aggiungendo due ulteriori particolari.
Allora, ascoltate bene signori.
Il tedesco che voi avete ucciso era il figlio di un grande industriale tedesco, ed è vero, aveva avuto un serio problema con una bambina, durante una vacanza, un anno fa, in Africa. Sfruttando le conoscenze del padre aveva corrotto polizia, giudici e guardie. Insomma, il suo nome era valso ad evitare molte noie a se stesso e alla propria casta. Nell'ambiente che voi frequentate queste cose accadono di frequente, no? Gli scandali si evitano, l'economia si preserva, capite? È per questo che l'Agenzia mi ha dato il compito di tenere sotto controllo il ragazzo, su ordine del padre. Affinché non combinasse altri spiacevoli incidenti, con rispetto parlando. E se può esservi d'aiuto, credo che nell'istante in cui gli avete tolto la vita, dal petto del ragazzo si sia dissolto un grande peso, un peso troppo grande da sopportare.
I due coniugi/assassini non sembrano gradire l'idea d'aver liberato da un 'peso' il carnefice della propria bimba.
Vorrebbero piuttosto essere slegati, a questo punto.
Ma – ecco il secondo particolare riferitomi dall'agenzia - non era quel tedesco, quello che avete maciullato, il vostro tedesco...
Mi dispiace, signori, mi dispiace davvero.
I due mi fissano, pensano che io sia pazzo.
Io li rincuoro, scuoto la testa, spengo anche la sigaretta, mi dispiace, vi siete sbagliati.
Cosa? Mi domanda lei, con gli occhi fuori dalle orbite.
Cosa? Ripete.
Sì, signora. Avete ucciso il tedesco sbagliato.
Mi tocca dare spiegazioni, mi pare doveroso.
Si da il caso che il bastardo che ha ucciso vostra figlia, attualmente, alloggi in un resort, su un'isola dell'Indonesia, dedicandosi con felicità e piena soddisfazione alla pedo-pornografia. E sta benissimo.
Gli inglesi non possono credere alle mie parole. Pare si siano anche dimenticati delle corde che li tengono stretti. Restano zitti.
A suo tempo – continuo - dopo aver investito la vostra piccola, il tedesco ‘giusto’ ha usato molto denaro e tante minacce per uscire pulito dalla vicenda, ma non solo. E’ riuscito a depistare ogni indizio a proprio carico spostandolo su un altro ragazzo, un suo ex compagno di collegio, che a quanto pare odiava a morte per una spietata concorrenza tra famiglie, ossia il vostro tedesco, capite?
Mi fissano.
Credono che io stia scherzando, che sia tutto un sadico gioco.
Ma no, che sadismo! È tutto vero, signori.
Posso comprendere la vostra rabbia, la vostra frustrazione nell'aver perso una figlia e nell'essere stati vittime di uno scambio di persona, nonché di essere stati superati a livello spionistico, ma...
L'Agenzia pretende che le cose vengano messe a posto. L'economia europea va preservata, gli scandali vanno taciuti.
Giusto per puntualizzare.
Siccome il tedesco che voi avete brutalmente ucciso era - anche lui - figlio di un grande industriale - ironia della sorte - ed aveva maciullato una bambina durante una vacanza, mentre si trovava alla guida di una macchina di grossa cilindrata, con addosso una stupida camicia hawaiana, e sebbene quella bambina non fosse vostra figlia ma una piccola indigena africana…
E mi fermo.
Sorrido.
Capite?
Ricco tedesco, grossa macchina, camicia hawaiana, ma bambina negra, ok?
Mi dispiace, la scena che avete visto a distanza, mentre le sirene della polizia vi accecavano quella notte, è stata inquinata appositamente. Il vostro tedesco cadavere ha ucciso una bambina africana, l’altro tedesco ha ucciso vostra figlia. Hanno scambiato i corpi, vi hanno fregati.
Hanno sostituito le bambine, capito?
Avete ucciso l'assassino sbagliato.
Però, perdonatemi la franchezza, forse possiamo dire che tramite la vostra azione una specie di giustizia è stata raggiunta?
Come dire, un riequilibrio?
Possiamo dire che, in definitiva, il vostro gesto non è stato vano?
L'uomo e la donna mi guardano con le bocche socchiuse.
Certo che no, lo so.
Non ci pensate che aver ucciso un uomo per la bambina sbagliata possa chiamarsi giustizia.
Grazie, signori, questo silenzio mi basta come risposta.
Le coincidenze significative non esistono e tutto ciò che facciamo è affidato al caso. Un inesorabile domino, tessera dopo tessera, che intreccia rapporti di causa/effetto, calcoli matematici e legge del più forte fino a comporre quella che è la nostra esistenza. Un'accozzaglia di eventi sui quali regna un Dio cattivo, dispettoso e distratto semmai.
Vostra figlia è stata spappolata, altre bimbe lo saranno, voi avete provato a sostituirvi alla giustizia, avete fallito, ed altri tedeschi ubriachi con addosso camicie hawaiane guideranno grosse macchine, l'economia vacillerà, desideri, speranze, idee... Provare a fermare l'incessante crollo delle tessere? Sarebbe tutto vano.
Mi rendo conto d'essermi lasciato prendere dalle mie solite elucubrazioni filosofiche.
Riprendo il controllo.
Mi dispiace, ripeto, avete fatto un errore.
Cerco di sorridere, per tirare un po' su il morale. Non ci riesco, ma almeno ci provo.
I due sono allibiti, contrariati, anglosassoni fino all'osso.
Adesso, però, devo mettere tutto a posto, affinché questo spiacevolissimo episodio non assuma tratti oltremodo macabri. Non che ne siano mancati, fino ad ora, di dettagli cruenti. Ma perché lasciare le cose così? Per fornire materiale alla carta stampata? Alle iene mediatiche che non aspettano altro che attingere da tutta questa folle tragedia? Per accanirsi alla ricerca di un senso, di una spiegazione, di un perché? Meglio livellare gli spigoli, fare in modo che il meccanismo scorra liscio.
Nel corridoio trovo il fucile da sub che il biondo avrebbe utilizzato contro di me. Lo carico.
Rientro nella stanza, sorrido.
I due mi fissano, ancora devastati dalla sorpresa d'essersi macchiati di un omicidio efferato senza peraltro riuscire a vendicare la figlioletta, inesorabilmente morta.
Nelle loro teste la frustrazione si fa spazio, così come si fa spazio l'arpione che io ho appena sparato mirando alle rispettive tempie.
Mira perfetta, sono riuscito a infilzare entrambi in un colpo solo.
Sembrano essersi addormentati l'uno accanto all'altra, con le teste poggiate in segno d'affetto.
Però mi tocca mettere tutto a posto, ricostruire una specie di omicidio/suicidio per allontanare i sospetti dalla faccenda del tedesco ‘sbagliato’. E per giustificare quella morte dovrò trovare un’altra scusa. Maledizione, penso, perché la gente vuole sempre fare le cose fatte male? Ci penserò dopo, parlando con qualcuno in Agenzia.
Devo estrarre l’arpione dalle teste degli inglesi, il cervello cola ovunque.
Cervello, dico, che ironia, l’unica cosa di cui erano privi questi due sciocchi.
Sistemo tutto, lentamente, e la polizia metterà a verbale quel che io ho deciso.
Punto.
Esco dalla penombra, torno in superficie.
Il mare è azzurro, i gabbiani stridono, la costa è distante.
Chiamo l'Agenzia, racconto l'essenziale.
Nella stiva trovo una tanica di nafta.
Cospargo il ponte, le cabine, il sartiame.
Cambio rotta alla barca, vele spiegate verso i frangiflutti del porto.
Accendo una sigaretta.
Davvero, penso, è strano non ricordarmi più dove ho messo quei sogni, quelle speranze, quei desideri che avevo custodito con cura tanto tempo fa. Ma la colpa non è mia. Tutto è affidato a qualcosa che non dipende da me. Il fatto che adesso io indossi una camicia hawaiana lo dimostra. Insomma, fosse stato per me non avrei mai scelto un capo d'abbigliamento così stupido, eppure le circostanze lo hanno voluto.
Prima di lanciare il mozzicone verso le cabine impregnate di benzina, mi tolgo di dosso l'indumento floreale, in un gesto di inutile ribellione.
Mi domando per l'ultima volta il perché dell'assurda richiesta. Far indossare una camicia al tedesco per ricreare il momento in cui la bimba era morta? Per costringere il presunto assassino ad assumere una veste da 'carnefice'? Forse perché chi era stato capace di architettare questo stupido omicidio detestava le camicie hawaiane? Forse perché nella libido della coppia inglese serpeggiava un certo feticismo? O forse perché è più facile uccidere un uomo se indossa una camicia disgustosa? Non lo so e non mi importa.
Scaglio la sigaretta, tutto avvampa.
Mi tuffo, stile perfetto, come un gabbiano sopra la preda.
Sono in acqua mentre la tre alberi viaggia veloce, vento a favore, per andarsi a schiantare sugli scogli artificiali e poi colare a picco.
Tutto alla fine apparirà come un tragico incidente. Nessuna connessione tra la coppia inglese ed il rampollo tedesco.
Nessuno saprà il perché di tante cose.
Nessuno indagherà sulla memoria del giovane, nessuna bambina spappolata verrà gettata in pasto alle cronache, nessun ricco magnate dell'industria bellica dovrà giustificare il passato del proprio figlio né il vero motivo della sua morte. Ognuno avrà un'unica certezza, ossia che le cose accadono perché la vita è cattiva.
Sono in acqua e nuoto in fretta.
Non mi piace quando il mare è così profondo.
Non mi piace l'abisso che sta sotto di me. Provo sempre la sensazione che qualcosa possa uscire dall'ombra, prendermi, trascinarmi con sé. Ne ho paura, orrore.
Preferisco tornare a riva, stendermi al sole.
Devo raggiungere la costa e poi pensare al tempo in cui avevo dei sogni, delle speranze, dei desideri.
Forse - dico forse - prima o poi ritroverò memoria di quei frammenti di un me stesso disperso nel tempo. Magari ritroverò la strada per andarli a recuperare, forse prendendomi una vacanza dai compiti che l'Agenzia mi affida.
Forse troverò un senso a questo abbattersi dei giorni, uno dopo l'altro, come tessere di domino che cadendo in un cesto diventano un mucchietto: il risultato di un'esistenza vissuta con ostinazione, attaccata alla sopravvivenza di un'idea, di un pensiero, di una briciola infinitesimale che da sola possa donare un senso al cumulo d'azioni apparentemente scollegate tra loro. Perché tutto torni chiaro, cristallino, pacificato.
Forse riuscirò a comprendere anche un assurdo arabesco floreale stampato su una camicia hawaiana.
E quel giorno, forse, potrò sorridere di me stesso, senza più preoccuparmi di livellare le cose affinché tutto quadri ad ogni costo, libero di credere all'armonia nascosta sotto l'apparente kaos delle cose, libero di credere alle coincidenze, libero di pensarmi libero, senza essere ad ogni costo un ingranaggio destinato a cadere sotto i colpi del 'caso'.
Quel giorno, forse, non avrò più orrore dell'abisso sul quale nuoto, ora. Lo stesso abisso in cui mi pare di scorgere i volti di tutti quelli che fino a oggi ho sacrificato in nome dell'ordine, dell'Agenzia, dell'economia, della mia stessa follia.
Forse.
Fine prima parte.
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