Chi ha bisogno della coscienza?
La coscienza viene spesso descritta come una casualità evolutiva. Un incidente di percorso. Allo stesso tempo però la coscienza stessa sembra esserci essenziale, ed essere ben più che una consapevolezza di esistere.
Dato che né la scienza né la filosofia sembrano essere riuscite a definire la coscienza, dovremmo dedurne che sarebbe inutile tentare di indagare le sue origini e il suo divenire? Possiamo anche solo dare per scontato che la coscienza esista per davvero, e non sia semplicemente un epifenomeno della fisiologia cerebrale, per non dire un’illusione? A mio avviso queste domande cadono nella stessa categoria del paradosso del solipsismo. Forse tutto ciò che esiste è la mia coscienza, e quindi la mia coscienza è falsa se attribuisce coscienza a tutto tranne che a me. O forse sto solo immaginando di pensare. E così via. Certo, forse è così, ma che importa? Non significherebbe niente in ogni caso. Per semplificare il nostro scritto, diamo per assunto che tutto sia sufficientemente reale quanto basta perché possa esistere, e che siamo nati in una condizione ontologica o esistenziale comunemente chiamata coscienza.
In breve, accettiamo la nostra percezione, sensazione o estetica dell’essere consci, e procediamo con l’indagare la natura di uno stato così probabile, o almeno possibile.
La coscienza sembra essere qualcosa di diverso o di più rispetto alla consapevolezza. È possibile che, come credevano gli scienziati romantici e gli ermetici, anche le pietre siano consapevoli, ma in una dimensione temporale praticamente inaccessibile per noi – se non attraverso l’alchimia, la quale consisterebbe allora nell’arte di accelerare la consapevolezza della pietra al livello visionario della coscienza. Certe piante e animali sono consapevoli: possiamo lasciar perdere la prospettiva cartesiana di una materia inerte e di animali intesi come macchine insensibili. L’universo è, per così dire, consapevole. Forse la natura della coscienza riguarda la consapevolezza di questa consapevolezza, come il mito di Narciso. Abbiamo già ripreso in questo senso la metafora dello specchio.
L’universo richiederebbe la coscienza da parte del Sé percipiente per divenire consapevole della propria consapevolezza. «Ero un tesoro nascosto», dice Allah, «e amai essere conosciuto. Ho creato la creazione affinché mi conosca».1
Se così fosse potremmo affermare che la coscienza non è un accidente ma gioca un ruolo nell’evoluzione – se definiamo l’evoluzione come più di una concatenazione accidentale di materia inanimata in una condizione senza significato che chiamiamo vita. La coscienza potrebbe essere vista come la condizione necessaria per il sorgere del senso o del valore, come lo chiama Nietzsche. Potremmo definirlo l’amore o il desiderio che l’universo ha per se stesso.
Fatte queste premesse, dovremmo porci la domanda principale: perché ci ritroviamo oggi di fronte a quella che viene chiamata la crisi o persino la catastrofe del senso, al punto che le certezze e i sistemi simbolici della spiritualità tradizionale non ricoprono più per l’umanità il ruolo di roccaforti contro l’abisso, dall’esistenzialismo chiamato banalmente l’assurdo? E perché c’è questa cupa negazione dell’importanza del senso da parte degli scienziati e filosofi che non riconoscono la funzione evolutiva della coscienza?
Abbiamo ragioni pratiche per sollevare la questione, dato che la posizione volgarmente materialista ha condotto a una condizione moderna fondata sulla riduzione di tutto il valore in prezzo, e a quel trionfo della bruttezza sulla bellezza che chiamiamo civiltà. L’azione più rivoluzionaria che ci rimane è la restituzione del valore al valore, come ha proposto Nietzsche. Ma non possiamo cominciare l’opera senza prima chiederci, non cosa sia la coscienza, ma cosa faccia, e ovviamente, senza prima risalire all’inizio del declino, tornare al momento in cui la coscienza ha smesso di ricoprire la sua funzione evolutiva.
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Il nostro compianto collega Terence McKenna ha ipotizzato che la coscienza sia emersa quando una scimmia ha mangiato un fungo allucinogeno. Anche se non credo che questo evento sia accaduto davvero, penso che sia una bella metafora. Una relazione Io-Te tra noi ominidi e il mondo, nella forma di un sacramento o cibo sacro, potrebbe indicare o simboleggiare appropriatamente una possibile origine della coscienza. La filosofia moderna diffida di tutte le origini e pretende di circoscrivere le proprie argomentazioni alle funzioni, ma non siamo obbligati a restringere le nostre indagini all’interno della camicia di forza del mero positivismo.
La consapevolezza quindi divenne consapevole di sé per giungere all’identità del Sé e del mondo in una relazione dialettica di desiderio e amore. L’istante preciso della separazione, in cui l’animale cosciente diventa non solo consapevole ma conscio della propria consapevolezza, è anche potenzialmente il momento esatto della riunione o unio mystica, l’unità di Sé e altro.
Credo che il linguaggio possa costituire lo strumento necessario di tale realizzazione, ma allo stesso tempo sia il terreno su cui è possibile per la coscienza decadere. Il linguaggio è forse lo specchio necessario, ma uno specchio è già uno schermo. I miti universali che raccontano di animali parlanti e divinità teriomorfe indicano già una nostalgia per il Sé indiviso prima del linguaggio, il Sé animale. Il misticismo riguardante tutti i misteri di figure licantrope dei cosiddetti popoli primitivi esprime il desiderio di una reintegrazione che vuole travalicare il linguaggio. Il declino è preordinato? Il linguaggio è l’errore originario?
Credo che per il momento sia necessario scartare questa possibilità, se si vuole continuare a parlare della coscienza. Dopotutto, gli altri miti danno precedenza alla parola, al logos. Dio crea il mondo come linguaggio, o anche come scrittura. Sarebbe interessante, ma non appropriato, guardare al linguaggio come al nemico di una qualche ipotetica coscienza pura, perché equivarrebbe a un suicidio intellettuale. Per ora basti accettare la nozione che la nostra coscienza gioca un ruolo nell’evoluzione, e che l’espressione stessa della coscienza è la condizione necessaria per la sua efficacia.
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Questo ci porta concettualmente, se non cronologicamente, al paleolitico, ai tipi di umani parlanti che chiamiamo Neanderthal e Cro-Magnon, e alle loro estensioni temporali più tarde di gruppi sociali tribali di cacciatori e raccoglitori egualitari, privi di gerarchia, primitivi nel senso di primordiali, originari. Molti esempi di questi gruppi sono sopravvissuti e documentati persino in forme storiche, quasi sempre con pregiudizio e incomprensione, ma perlomeno la loro esistenza è stata registrata. Possiamo rifarci a queste testimonianze per interpretare il “passato” in cui è esistita una “precedente” forma di coscienza. In alcuni recessi remoti o tra i “rifiuti della società” come mistici e artisti, esiste ancora. Uso le parole passato e precedente in senso metaforico, anche se ne conservo il senso storico. Il passato potrebbe essere adesso. Per dirla con Faulkner, non è neanche passato.
Che tipo di coscienza si differenzierebbe dalla nostra al punto da spingerci a considerarla precedente? Per usare la lingua poetica del Rig Veda, come se fosse l’alba? Per comprenderla dobbiamo immaginarla, e per immaginarla dobbiamo esperirla, come satori isolati in cui ci dimentichiamo che noi e l’universo siamo in relazione. Credo che tutti gli umani abbiano accesso a questo stato, anche se molti di noi lo reprimono per i motivi che andremo a indagare. Nella seconda metà della vita, Colin Wilson dedicò la propria ricerca a questo problema: come indurre e prolungare l’esperienza di picco in cui la coscienza opera per noi, non contro di noi, per restituire senso e valore alla vita.
Senza dubbio verrei accusato di esotismo superficiale se affermassi che le comunità “primitive” posseggono maggiormente questo tipo di coscienza rispetto a noi moderni, perciò è meglio esprimersi in termini comprensibili per la teoria critica. Forme socio-economiche di coesistenza diverse inducono modi di coscienza diversi. Nemmeno i marxisti potrebbero negarlo. Da questa idea traggo la mia tesi. Il pensiero o la coscienza determinano la forma di vita, ma la forma di vita determina il pensiero, o almeno la qualità soggettiva dell’esperienza e del valore vitale, cioè la coscienza.
A causa dei modi in cui producono e riproducono il valore, le società primitive e tradizionali possono esprimere una forma più pura e profonda di consapevolezza di essere-nel-mondo rispetto a ciò che permette la nostra civiltà tecnologicamente avanzata. Una mediazione tecnologica ed economica eccessiva influisce negativamente sull’esperienza diretta. La si chiami pure “alienazione”, per usare il termine nell’accezione che gli diede Marx nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, o anche in senso esistenzialista. Non credo che uno sciamano vedrebbe le cose in maniera diversa – difatti sappiamo che i pensatori sciamanici appartenenti a società primitive ancora esistenti, come gli hopi, i kogi o gli yanomami, hanno recentemente mosso proprio questo genere di critica alla società occidentale o moderna.2
Voglio sostenere, basandomi sull’archeologia, l’antropologia, la storia dell’arte e delle religioni, che le società più “arretrate” posseggono una forma qualitativamente diversa di coscienza, meno alienata di quella postindustriale della società capitalista e della sua cultura monolitica basata sul feticismo dell’agiatezza e sul materialismo volgare. La coscienza primitiva sembra più in sintonia con il corpo, con la natura, esprime un ethos o partecipazione animista che possiamo associare con l’arte primitiva e gli stili delle culture pre-moderne. Si potrebbero fare molti riferimenti, ma credo di essermi espresso chiaramente. Invito i lettori a immergersi nella letteratura etnografica e replicare le mie ricerche. Nessuno mi paga per questo lavoro, e non ho nessuna scadenza. Le note di riferimento possono essere riprese guardando ai lavori di Charles Fourier, Ananda K. Coomaraswamy, Pierre Clastres, Marshall Sahlins, James C. Scott, Abdullah Öcalan, Richard E. Sorenson, nonché agli anarchici verdi e ai primitivisti dell’anti-civilizzazione come Fredy Perlman e John Zerzan. Rimando inoltre ai miei precedenti lavori nel campo.3
Il mio scopo non è dimostrare la veridicità di una particolare teoria sulla coscienza primitiva. Do per scontato che forme precedenti e più evoluzionarie di coscienza sono state largamente soppiantate dalle forme contro-evoluzionarie più tarde. Mi chiedo semplicemente come sia potuto succedere.
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Riferendosi ai nomi sopra citati, si può ipotizzare che il primo grande passo verso l’alienazione sia stata la domesticazione delle piante e degli animali in epoca neolitica tra gli altopiani delle odierne Iran, Turchia e Iraq. Quella che probabilmente nacque come lo svilupparsi di una relazione amorosa con certe piante e animali, al punto che gli umani preferirono vivere con loro tutto il tempo piuttosto che cacciare o raccogliere risorse, comportò complicazioni impreviste per la salute e la coscienza, dato che, come notò Nietzsche, il benessere fisico e la coscienza sono strettamente connessi o cocreativi. Non più simili ai vegetali e agli animali, rispetto all’animismo del paleolitico, gli umani divennero loro “superiori”, come nel paganesimo del neolitico, e successivamente la superiorità in sé costituì una scissione o alienazione dalla natura.
Bisogna sottolineare che l’addomesticamento non diede origine, o condusse inevitabilmente, alla nascita della civiltà e dello stato.
Il contadino proto-vassallo vive una vita comunitaria tutto sommato egualitaria. Il tempio è il centro della ridistribuzione e del benessere, non del debito e del peccato. Una volta che lo stadio neolitico iniziale dell’allevamento e della coltivazione basilari viene sostituito dall’agricoltura, il tempo libero e l’abbondanza del paleolitico, interrotto occasionalmente da periodi di intenso sforzo e digiuno occasionale, vengono rimpiazzati da un’economia più regolare e sicura basata sul surplus e su quello che potremmo già chiamare lavoro. Il primo genera ansia (qualcuno potrebbe appropriarsi del surplus della ricchezza comune), il secondo crea monotonia (cacciatori e raccoglitori non eseguono mai solo una mansione). La preoccupazione e la noia erodono la vecchia coscienza, con risultati riscontrabili nell’arte neolitica, molto meno libera dell’arte paleolitica.
Ma l’agricoltore libero vive una vita colta e sacra rispetto agli schiavi, la classe lavoratrice o fellahin che si formò con l’improvvisa nascita dello stato circa 6000 anni fa. Per un milione di anni gli umani si erano evoluti per condurre una vita non autoritaria basata sulla mutua collaborazione, e ora in un lampo la società volta le spalle all’evoluzione e si riorganizza per il beneficio esclusivo di una classe governante formata da re, guerrieri e sacerdoti. Il Tempio è ora diventato la Banca Centrale, il centro di comando del peonaggio e della repressione. Tutte le civiltà cominciano in un’orgia di sacrifici umani; in seguito l’impulso omicida viene considerato economicamente controproducente ed è sostituito dal tributo di guerra, dalla schiavitù, dal debito e dall’ideologia religiosa, che giustifica la sofferenza. Gli umani furono creati per servire gli dèi e i loro rappresentanti. Ribellarsi è peccato.
Da allora gli apologi del potere – teologi, filosofi, scienziati – ci spiegano che il progresso consiste in maggior ricchezza e bellezza per la classe dominante, e duro lavoro e bruttezza per la gente comune. È chiaro che la nascita della civiltà segna il momento di crisi della coscienza, che ora deve diventare cattiva coscienza, o “falsa”, per mantenere l’illusione reciproca che questo stato d’essere innaturale è in qualche modo divinamente (o scientificamente) predeterminato, perché è evoluzionario. Prima nel paleolitico, secondo gli intellettuali, esistevano la povertà e la guerra universali, poi sono arrivate la straordinaria rivoluzione agricola, le glorie della civiltà classica e infine la perfezione del tecnocapitalismo trionfante. Darwin lo vuole, così deve essere!
Ovviamente, tutti sanno nel profondo del cuore che le cose non stanno così. Non solo la civiltà ha creato ingiustizia e lavori monotoni per noi mentre ha garantito libertà e cultura per le élite, ma è ora evidente che la civiltà distruggerà l’ambiente, cioè la natura, per semplice stupidità e avidità. La dissonanza cognitiva tra le grandiose rivendicazioni della civiltà e l’effettivo banale immiserimento della vasta maggioranza degli umani spinge o alla ribellione, preda di una rabbia incontrollata, o alla muta disperazione e al feticismo consumista. La religione non offre più una valida scusa per una tale coscienza schizoculturale, e il risultato è il futuro che abitiamo oggi, senza dio, artificiale, orrendo, e apparentemente terminale.
Tutto ciò non avviene nell’arco di una notte. La coscienza ha una storia. Possiamo ripercorrerla per tappe, a partire dal collasso avvenuto intorno al 4000 a.C., fino al presente. Servono migliaia di anni alla nuova economia per diffondersi e infettare il mondo intero, persino oggi in pochi angoli remoti e retrogradi del globo persistono ancora tracce di forme precedenti di consapevolezza tra le comunità tribali e rurali. Inoltre, nel corso dei secoli alcuni umani si sono sempre ribellati alla civiltà, è sempre esistito un movimento underground sotto la superficie dell’oppressione e dell’ideologia, una società segreta eterna, o anche un tong5 dedito al rifiuto e alla resistenza. E ovviamente si è dimostrato impossibile sradicare i mistici e i poeti che in alcuni casi vedono oltre la coltre di miraggi e apprendono le vestigia di antiche verità.
Cerchiamo a questo punto di delineare una storia della nostra coscienza.
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Consapevolezza
Tutto ciò che è nell’essere è consapevole.
Coscienza
Il mistero da risolvere.
Autocoscienza
In apparenza solo gli umani sono autocoscienti, ma si potrebbe sospettare che lo siano anche scimmie, cani e persino corvi. Questo è il livello del linguaggio, o lo specchio del logos.
Autocoscienza tragica
Diventiamo consapevoli di noi stessi in quanto esseri separati tragicamente e cronicamente dalla “natura originale”. Inventiamo la spiritualità, l’arte e la “sessualità” come mezzi per riunificarci con il mondo perduto degli animali (animismo). Dal punto di vista economico, questo è lo stadio del dono, la reciprocità arcaica; dello sciamanismo, misticismo senza religione; della cultura, ancora priva della radicale separazione della civiltà tra classi superiori e inferiori.
Autocoscienza acuta
Giunti al neolitico, la coscienza vive una crisi in quanto veicolo che segna un profondo divorzio dalla natura selvaggia. La spiritualità della reintegrazione ora viene sospinta dall’angoscia e dalla violenza tramite il sacrificio, l’animismo è sostituito dal paganesimo. L’animismo considera tutto sacro, mentre il paganesimo proietta la sacralità su dèi concepiti come Altro dal mondo. Tra le due attitudini non c’è una separazione netta, ma uno spettro. Con il paganesimo il paesaggio e la vita stessa diventano improvvisamente animate e sacre, gli dèi possono irrompere nell’esistenza quotidiana.
Coscienza civilizzata
Come ha osservato Charles Fourier, questo stadio rappresenta la vera caduta dallo stato di grazia. Gli dèi non si manifestano più nella nostra consapevolezza, ma possono solo essere raggiunti indirettamente attraverso la mediazione sacerdotale. Ci si sente condannati, peccaminosi, condannati al lavoro da una maledizione biblica: il corpo è sovrascritto dall’alienazione – il corpo è un nemico. La civilizzazione è una malattia mentale; su un pianeta normale questo tipo di persone verrebbero considerate pazze. Eppure, dobbiamo ricordare che certe forme nobili di coscienza possono persistere e superare persino l’immiserimento e i ramolacci della civilizzazione, come era solito dire Fourier. Il mondo non è ancora percepito come materia inerte. Un’arte veramente elevata e grande può ispirare una gioia estetica affine all’animismo primordiale, persino il proletariato crea ancora e colleziona questo genere d’arte. Inoltre, lo stato primitivo è ancora inefficiente nei suoi meccanismi di controllo. La scrittura può costituire la magia dello stato ma può essere sovvertita, e lo è, dall’eterno sostrato in un mezzo di resistenza. Ci sono ancora zone non mappate della terra in cui si può scappare per sfuggire ai padroni, le utopie dei pirati. Certi tipi di misticismo e magia giacciono al di fuori della realtà dominante dell’oppressione e della noia.
Razionalismo
La graduale apoteosi della civilizzazione e l’emergere di ciò che oggi riconosciamo essere il capitalismo portò a un illuminismo cartesiano che per la prima volta rovesciò la dottrina della terra vivente, mantenuta dall’ermetismo tradizionale a partire dall’antichità, e rimpiazzata con il dogma della materia inerte e del cogito isolato. L’influenza della tecnologia e dell’economia può aver aiutato a dare origine a questa visione del mondo, ma la stessa diede vita a una nuova disastrosa forma di coscienza, in cui il Sé si convinse di essere razionale. In pratica questo è il momento della morte di Dio, anche se la tremenda novella non venne recepita a fondo se non dopo un paio di secoli. Il risultato di questa presa di coscienza fu il romanticismo, che tentò, e forse sta ancora provando, a ravvivare l’immagine della terra vivente assieme a una filosofia ed estetica dell’animismo.
La nuova coscienza rigetta o ignora qualsiasi irruzione divina nella propria vita e impone la «crudele strumentalità della ragione»6 sul mondo ridotto a oggetto, piuttosto che cosoggetto. La fisica newtoniana7 con il suo universo meccanico viene rispecchiata nelle idee economiche come l’utilitarismo, dove gli ideali di efficienza e profitto cancellano le sfere dell’emozione estetica e della realizzazione di un’unità con la natura.
Possiamo considerare l’enclosure sia come la perfetta metafora sia come l’implementazione più razionale di queste idee. Lo spirito viene emarginato assieme alla terra. I poveri verranno presto dichiarati inadatti, e sono già considerati immeritevoli. Ciò che conta è il contabile. I pretesi ideali positivi del razionalismo, quali la democrazia rappresentativa, vengono traditi tutti in un colpo dal ritorno del represso e tramutati in maledizioni come il capitalismo industriale e il periodo del Terrore.
Al confronto, i sumeri, gli egizi e la cavalleria di Re Artù sono molto più attraenti. Paragonata al colonialismo imperialista e alle officine sataniche della rivoluzione industriale, persino la cristianità medievale assume in retrospettiva un fascino nostalgico, da cui scaturisce l’aspetto reazionario del romanticismo. Ma questa reazione appare calorosa e rivoluzionaria in contrasto con la freddezza e la rigidità della Ragion Pura. Inoltre, esiste una corrente “di sinistra” del romanticismo, rappresentata dalla simpatia di Shelley e Byron per i tessitori luddisti, e dall’entusiasmo di Blake per Satana celebrato come la quintessenza dell’immaginazione nel Matrimonio tra il Paradiso e l’Inferno. In risposta al razionalismo, naturalmente lo spirito libero abbraccia l’irrazionale, e la rivolta della coscienza sommersa assumerà forme “folli” come la rinascita dell’occulto nel XVIII secolo, il decadentismo del XIX secolo, o il surrealismo e l’anarchismo del XX secolo. Quella che abbiamo chiamato coscienza normale, esemplificata dalla cultura paleolitica, è ora relegata al manicomio. Solo i folli sono veramente coscienti.
L’autocoscienza borghese
Arriviamo ora a quella che potrebbe essere definita la mentalité moderna. L’educazione è diventata un processo di acculturamento ai dogmi del razionalismo e dell’utilitarismo, il risultato è un Sé sovra-educato, non l’uomo rinascimentale ma lo specialista dissociato. È richiesta una repressione sessuale su scala praticamente industriale per creare la disciplina necessaria a sopravvivere e persino prosperare sotto il capitalismo. Ma il risultato si manifesta come un livello patologico di autocoscienza acuta, l’oscura ombra emergente dell’ego razionale illuminato. I pensieri del XIX secolo si aggrappano alla religione come un pennone spezzato che galleggia dopo un naufragio, ma dove la religione comincia a fallire, la mente borghese emerge trionfante. Il darwinismo sociale perverte l’idea dell’evoluzione atea in una scusa per la repressione eugenetica della classe operaia e delle altre razze. Il materialismo erige difese rigide e isteriche contro l’irrazionale e il sensuale. L’arte ufficiale degenera in un kitsch estremo e una magniloquenza trionfalista, mentre i folli romantici sono esclusi, considerati irrilevanti o persino malvagi: drogati d’oppio! Pervertiti! Criminali estetici!
La coscienza malata della borghesia pondera si considera come se fosse nello specchio del Sé. Si preoccupa solo del Sé, lo gestisce come se fosse un portafoglio di investimenti ma lo teme come un Mr. Hyde. In guisa di un motore a vapore, deriva la propria energia dall’autosoppressione. La ricchezza non è più un segno d’elezione divina ma di perfezione evolutiva. È moralmente giusto essere segretamente infelici, è il prezzo per essere civilizzato e avanzato, un vero gentiluomo o madame vittoriane.
Nel frattempo gli “altri” che non hanno raggiunto questo stadio avanzato, i poveri, i “nativi” e “selvaggi” che vivono alle estremità oscure dell’impero, rappresentano l’inconscio. Le minoranze devono essere oppresse così come l’inconscio deve essere soppresso e negato. Loro sono rimasti tutt’uno con la natura, e ciò li rende superflui e spregevoli.
L’unico Sé che ha valore è il Sé borghese. Difatti i poveri, sebbene oppressi, appaiono in realtà meno repressi dei loro padroni. Sono “puerili”, un termine offensivo nelle bocche dei legislatori, ma per la resistenza è forse una verità romantica. I poveri hanno i loro piaceri: il sesso, le droghe, le feste sfrenate e il caos. Potrebbero persino possedere una consapevolezza mistica perduta dalla più nobile controparte civilizzata. O forse sto romanzando troppo? I nativi con le loro danze degli spiriti senza speranza, i contadini con le loro stupide ribellioni agrarie, sono davvero in qualche modo più in contatto con la “divina natura” di quanto lo sia la borghesia? Io dico di sì.
L’autocoscienza iperborghese e la scoperta dell’inconscio
Attorno al 1900 i Padroni dell’Universo europei realizzarono “all’improvviso” che erano malati di mente e di spirito. Si stancarono della repressione sessuale e non vollero più immolarsi agli altari della civiltà. Negli ultimi giorni aurei del lungo XIX secolo si diffuse nell’aria l’odore di una incipiente rivolta. Nietzsche e Freud scoprirono l’inconscio.8 Forse si poteva tornare in contatto con il Sé primitivo, il Sé dell’età della pietra per intenderci, in una coscienza indivisa. Forse la chiave era la psicoterapia, o l’arte, o entrambe.
Sfortunatamente non era nessuna delle due. Il risultato dell’eruzione dell’inconscio fu l’apocalisse della guerra totale nel secolo breve e la peggior sofferenza che l’umanità avesse mai sperimentato fino ad allora, un salasso che finì quasi con l’uccidere il paziente, un’orgia di odio e omicidi.9
I surrealisti considerarono la liberazione dell’inconscio come un atto rivoluzionario, ma Freud aveva deciso che l’inconscio doveva essere infine ri-represso come un motore a vapore per salvare la civiltà dal suo disagio. Lo psicanalista fallì nel comprendere che la civiltà è il proprio disagio. Provare a mettere di nuovo il coperchio sul calderone ribollente provocò un’esplosione nella quale l’ego venne quasi disintegrato. Il trauma dell’eruzione ha definito la coscienza del nostro periodo postbellico.10
Negli anni cinquanta il pensiero freudiano ed esistenzialista raggiunse la sfera del dibattito pubblico. La mia generazione è cresciuta facendo battute sul complesso di Edipo e sulla nostra angoscia nevrotica. Negli anni sessanta, ci siamo stancati di essere depressi e “sconfitti”, perciò abbiamo deciso di ribellarci contro la civiltà in nome della pace, della gioia, della sessualità libera, degli allucinogeni enteogenici, dell’arte e della realizzazione mistica. Avevamo preso questo “gioco” molto sul serio e fummo profondamente delusi quando la rivoluzione del 1968 fallì per essere repressa dal capitalismo e dal comunismo, il suo gemello malvagio.
La spiritualità orientale si dimostrò essere solo una tappa del viaggio e non la meta finale, semplicemente aggiunse la propria influenza all’emergere di una nuova autocoscienza iperborghese, compiaciuta delle proprie virtuose politiche liberali e del sentimentalismo ambientalista. “Spiritualità” ora significava non doversi mai scusare per contribuire a rovinare gli ultimi resti del mondo naturale. «Chi, io? Perché, ho votato Obama!», «Faccio delle donazioni al Dalai Lama!», «Ho protestato contro la guerra!», e così via.
Il Sé dell’iperborghesia è il Sé più prezioso. Niente potrebbe essere più importante del bambino borghese, creato a immagine e somiglianza della famiglia borghese, il centro dell’attenzione e la quintessenza del suo Sé autocompiaciuto, del suo eccezionalismo soddisfatto. I bambini poveri possono ancora “andare fuori a giocare”, forse da soli, persino annoiati, ma il bambino prezioso non viene mai liberato dal castello della devozione. Circondato da giocattoli hi-tech e computer, televisori e videogiochi, pecorella guidata da un’attività funzionale all’altra, buttata in un pollaio con altri bambini simili della stessa età in fabbriche sociali per la produzione di ego de-socializzati, ogni capriccio del caro bimbo viene accontentato, ma solo nel contesto di una opprimente mancanza edipica. Il risultato è il consumatore adulto, un feticista ignorante, viziato e iperinflazionato, il Sé infantilizzato, isolato ed eziolato della classe media universale postmoderna.
A proposito, posso escludermi da questa critica? Mi piacerebbe poter dire di essere un signor naturalista della classe operaia dallo spirito libero e la mente sana, ma in realtà, come Nietzsche, sono solo in grado di diagnosticare le miserie della “mia classe” perché ne faccio parte.
Il balzo dall’inconscio alla tecnopatocrazia
L’inconscio si è dimostrato un tremendo fardello, un oggetto insidioso buono solo per essere ributtato sotto il divano della civiltà assieme a tutti i cumuli di polvere e i mozziconi di un passato rinnegato.
La psicoanalisi e le piante enteogeniche/sciamaniche vennero considerate troppo minacciose, e furono rimpiazzate con inibitori della serotonina e tranquillanti. Chi ha bisogno dell’inconscio quando abbiamo il Prozac e il Ritalin? I bambini che mostrano segni di ribellione, o potenziale per futuri comportamenti antisociali, possono essere drogati e sottomessi, a costi bassi e con metodi efficienti. Per noi l’efficienza è la scusa per tutto. Distruggeremo il mondo nel nome della convenienza, e inoltre ne trarremo profitto. Infatti già lo facciamo.
Lo schermo prende il posto dell’anima o psiche, offre il «paradiso di cristallo» che una volta veniva promesso dai dualisti gnostici che rinnegavano il corpo. Lo schermo ci offre tutti gli antichi sogni della magia: visione lontana, preveggenza, istantaneità, telepatia, la Biblioteca Universale di tutta l’informazione di ogni tempo, mappe che ci impediranno di perderci o di sapere dove siamo, tutte le comodità, tutti i desideri a portata di un pulsante (purché abbiano un prezzo, e cosa non ce l’ha?), un Grande Fratello che sorveglia ogni nostra mossa e pensiero per proteggerci dai terroristi e venderci ciò che vogliamo ancor prima di realizzare che lo vogliamo. Immortalità virtuale, volo sciamanico virtuale, la simulazione di una coscienza virtuale molto più divertente e meno minacciosa della coscienza con cui siamo nati, pensieri nuovi e brillanti di altre persone pronti a rimpiazzare i nostri vecchi rimuginii, una connessione istantanea al nostro conto in debito perenne (credito infinito), la protesi per l’anima. Un’intelligenza aliena in tasca per 200 euro, tutto su un piccolo schermo, il nostro specchio magico portatile. Siamo o no i più belli del reame?
Cosa può offrire il nostro patetico cervello di carne e la sua coscienza paleolitica repressa rispetto a queste meraviglie? Chi ha bisogno della coscienza, dopotutto? Perché? Per farci cosa?
La coscienza non è altro che il nodo terminale che riceve i dati dello Schermo Universale, altrimenti non ha funzione che non possa essere sostituita da una pillola. La soppressione macchinosa dell’inconscio comporta anche, sicuro come la morte, la scomparsa della coscienza. I dati sono meglio di Dio, migliori del Sé, migliori dei sogni, e realizzano tutti i nostri desideri ancor prima che li concepiamo.
Il dominio delle macchine impazzite, la tecnopatocrazia, ci permette di vivere tutti come zombie felici, mangiatori dei nostri stessi cervelli, consumatori dei nostri falsi Sé. Sotto il segno del Valore Universale, il denaro, la lunga e triste storia della coscienza vacilla verso una piagnucolosa conclusione. Il mondo va avanti senza di noi. Da adesso in poi i nostri simulacri, i nostri sostituti androidi, vivranno al nostro posto, lasciandoci al pacifico nirvana dei nostri smartphone e iPad. Invece di una società umana, che non esiste come ci disse la baronessa Thatcher, ci saranno i social network. Come il famoso Boy in the Bubble cantato da Paul Simon, non abbiamo bisogno di rischiare la nostra immunità nel mondo reale con la sua natura sporca e disastrata, infestata di vermi. Possiamo “interagire” per sempre con tutte le immagini che vogliamo per crearci un mondo dove l’unico idolo è il Sé vuoto.
È troppo tardi per la coscienza. L’evoluzione l’ha ampiamente superata. Ora non è più un problema, il dilemma è stato risolto. Il cervello è un computer, l’anima è uno schermo, uno specchio vuoto. Sparito, perduto, passato.
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IN COPERTINA UN’ILLUSTRAZIONE PER “MALBUCHGESCHICHTEN” DI ILSE FIRBAS, 1949
Questo testo è tratto da “La vendetta di Zarathustra” di Hakim Bey. Ringraziamo Agenzia X e Ampère Books per la gentile concessione.
di Hakim Bey
Link: https://www.indiscreto.org/chi-ha-bisogno-della-coscienza/
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